domenica 23 novembre 2025

GRISSOM GANG

America, anni Trenta: la giovanissima ereditiera Barbara Blandish, sequestrata da una gang di maldestri rapinatori, finisce dalla padella nella brace quando cade nelle mani della spietata banda Grissom, che uccide i suoi sequestratori e la rapisce a sua volta. A capo della banda c’è la spietata Ma Grissom che, d’accordo con suo figlio Eddie e gli altri complici, intende uccidere Barbara appena ritirato il riscatto. Ma alla donna si oppone l’altro figlio, Slim, mentalmente ritardato, che si è invaghito della ragazza e la vuole tutta per sé. Barbara capisce ben presto che l’unico modo per restare in vita è cedere alle avances di Slim. E intanto il detective Fenner, assoldato da Blandish senior solo per consegnare il riscatto, si mette di testa sua sulle tracce dei rapitori...

Tratto dal romanzo Niente orchidee per Miss Blandish (1939), opera prima dello scrittore inglese James Hadley Chase, Grissom Gang (1971), riprende il filone dei rapinatori “rurali” anni Trenta come Il clan dei Barker (1969) di Roger Corman e soprattutto Bonnie & Clyde (1967) di Arthur Penn. Ma rispetto all’antecedente “nobile” di Penn, il regista Robert Aldrich innerva il genere con una carica di violenza quasi da film horror, accentuata dall’ambientazione claustrofobica della prima parte del film. I Grissom non sprigionano alcun glamour: sono criminali sordidi, ripugnanti, accecati dal miraggio della ricchezza. E per raggiungerla non intendono rinunciare a niente, nemmeno all’idea di sopprimere la giovane prigioniera. Così danno il via a una catena di ammazzamenti che si snoda per tutto l’arco del film, fino a un inevitabile, sanguinoso epilogo. Giunti al quale, anche i probi cittadini che hanno denunciato il bandito superstite reclameranno la loro fetta di torta, cioè la taglia posta da Blandish padre sui rapitori della figlia. 

 

Grissom Gang è un film che, come tanti degli anni Settanta, affetta a strisce sottili il sogno americano, denudandone il nocciolo: il denaro. Al principio, non è Barbara l’obiettivo dei criminali: è la sua preziosa collana. Solo quando il suo fidanzato prova a resistere i rapinatori diventano assassini e quindi sequestratori, salvo poi soccombere al clan dei feroci Grissom, che vedono nella ragazza l’occasione del colpo grosso: un milione di dollari. Il denaro - o almeno l’illusione della ricchezza - è il leit motiv del racconto, prima miraggio, poi obiettivo raggiunto, e infine condanna di chi ha ceduto alle sue lusinghe, come in un faustiano patto col diavolo. E il Kansas teatro della vicenda, splendidamente fotografato da Joseph Biroc, abituale collaboratore di Aldrich, ha in effetti un che di girone infernale: guardie e ladri oppressi dall'afa stillano sudore in ogni scena.

 

In questo mondo di lupi Barbara Grissom è l’agnello sacrificale, che ha come sola prospettiva di salvezza l’alleanza col lupo più feroce di tutti, Slim. Il quale, benché affetto da un ritardo mentale e a dispetto della sua totale amoralità, è l’unico del branco a provare qualcosa di simile a un sentimento. Barbara è una ragazza viziata, e cerca - presuntuosamente, nella sicurezza conferitale dal proprio status sociale - di manipolare il suo carceriere. Eppure alla fine arriverà a comprendere la sua disarmante naiveté e lo ricambierà in maniera inaspettatamente sincera. Ma pagherà caro il suo gesto, con il ripudio da parte del padre e, verosimilmente, della classe sociale a cui appartiene.

 

 

“Aldrich non è un regista che guarda alla realtà con gli occhiali rosa”, disse, e con ragione, un noto critico. In Grissom Gang - scritto dallo sceneggiatore Leon Griffiths - sembra non esserci possibilità di redenzione per nessuno. Eppure il finale, a differenza del libro, rovescia le carte e mostra una inaspettata pietas verso il mostro di turno, il ritardato Slim Grissom interpretato da uno Scott Wilson in stato di grazia. E spiace che la critica non abbia apprezzato l’interpretazione di Kim Darby, qui efficace in un ruolo molto più difficile di quello interpretato ne Il Grinta a fianco di John Wayne. All'epoca la giovane attrice si era fatta notare in Fragole e sangue e nel musical Noi due a Manhattan, ma dopo Grissom Gang per lei ci furono per lo più anonimi ruoli televisivi. 

 

D'altronde, Aldrich fu un eccellente direttore di attori, e in Grissom Gang tutto il cast funziona perfettamente: Irene Dailey è una spietata mater familias, Tony Musante dà vita al cinico e spregevole Eddie, e Connie Stevens ad Anna, l’amante di Eddie, ennesima vittima del miraggio della ricchezza. Nei panni del padre di Barbara c’è il veterano Wesley Addy, alla sua ultima apparizione (la settima!) in un film di Aldrich.

In Italia Grissom Gang si è visto spesso sui canali Rai per almeno un paio di decenni. Purtroppo oggi il DVD è reperibile solo all’usato, e non a prezzi economici, e al momento il film non è disponibile sulle piattaforme. In compenso è presente su You Tube in versione originale, con sottotitoli generati automaticamente.


 Qui il trailer originale. 

 


martedì 28 gennaio 2025

A COMPLETE UNKNOWN

 A complete unknown (2024), di James Mangold

Prima di tutto, questo post richiede una premessa. Anzi, due.

Premessa 1: le canzoni di Bob Dylan sono parte della mia vita. Una parte importante, se non fondamentale, alla pari dei fumetti che ho letto e che mi hanno poi spinto a farli, i fumetti. E poco è mancato che Nathan Never non avesse l’aspetto di Bob Dylan, come raccontato qui: https://youtu.be/jTiVLdQY0lI?t=754

Premessa 2: non sopporto Thimotée Chalamet. Non mi piace, non gli riconosco nessun carisma, non mi trasmette niente.

E quindi, può essermi piaciuto A complete unknown, dove un attore che non mi dice nulla interpreta un musicista che mi ha detto così tanto? The answer, my friend...

Diciamo subito che c’è poco da discutere sulle qualità tecniche del film. Una ricostruzione così meticolosa e credibile degli anni Sessanta non la si vedeva, forse, dai tempi di Forrest Gump. E le interpretazioni di contorno sono semplicemente inappuntabili. Per essere composto da attori poco conosciuti (almeno da noi), il cast è di livello. Svetta, come molti hanno rimarcato, Edward Norton nei panni di Pete Seeger (affiancato peraltro da una brava Eriko Hatsune nel ruolo della moglie Toshi). Ma efficacissimo – anche per somiglianza fisica – è Dan Fogler nei panni del manager di Dylan, Albert Grossman, senza dimenticare Boyd Holbrook come Johnny Cash, e Norbert Leo Butz nella parte del sanguigno musicologo Alan Lomax. 

 
Edward Norton nella parte di Pete Seeger

Che cosa non gira a dovere, allora, soprattutto nella prima parte? Molto semplice: il film non emoziona, non “morde”. Prima di tutto perché semplifica un po’ troppo la figura del protagonista. Intendo non in termini di verità storica, ma proprio di narrazione. Se non sapessimo che quel Bobby arrivato in città, come dice lui stesso (mentendo) dal New Jersey è destinato a diventare un’icona del ventesimo secolo, lo troveremmo interessante? Ogni persona che incontra casca subito ai suoi piedi. Prima di tutti il suo idolo Woody Guthrie, che gli passa idealmente il testimone di portabandiera del folk regalandogli un’armonica; poi il grande Pete Seeger, poi la cantante giovane-ma-già-famosa, poi la coltissima studentessa di origini italiane. 

Sì, certo, Dylan era già magnetico, ma non solo perché scriveva quelle canzoni. Il fatto è che non era poi così ombroso. Aveva anche senso dell’umorismo, sapeva essere simpatico, e a momenti – ce ne sono parecchie testimonianze, soprattutto nella biografia di Anthony Scaduto – faceva addirittura tenerezza. Ma c’era anche, e forse soprattutto, una sfrenata, bruciante ambizione che lo portava a calcolare strategicamente ogni passo verso una fama stellare. Poi, certo sarebbero venuti gli sbalzi d’umore, i capricci da divo, e una certa “disempatia”, alimentata probabilmente da lunghe notti insonni passate a scrivere, col supporto di alcol e pasticche.

Il Greenwich Village degli anni '60 ricostruito nel film

Peccato che di tutto ciò non ci sia traccia, in una caratterizzazione che mostra un giovane Zimmerman sornione (Chalamet sembra sempre sul punto di cadere addormentato), mai realmente eccessivo, e soprattutto mai veramente in difficoltà. Di antipatie, rivalità, problemi coi discografici non c’è alcun cenno.

Insomma, un ragazzotto che è già His Bobness. Tutto fila liscio, a parte la difficoltà – difficoltà per chiunque di noi, ma non per lui – di destreggiarsi tra due fidanzate. E così il racconto arranca, soprattutto nella prima parte, con rari sussulti (comunque molto bella la scena della crisi cubana, in cui si ha la sensazione che la guerra con l’URSS sia a un passo).

Le palpebre si risollevano nella seconda parte, col Dylan già divo, già “elettrico”, e non solo musicalmente. Qui l’abbondanza di materiale di repertorio consente a Chalamet di avere più punti di riferimento, e di vestire i panni di Dylan in maniera così camaleontica che sembra di trovarsi davanti a una versione a colori di Dont Look Back. E qui sta forse il cuore del problema: tutto questo “realismo” era davvero necessario?

Monica Barbaro/Joan Baez al festival folk di Newport

La preparazione di Chalamet e di Monica Barbaro/Joan Baez per cantare e suonare è durata cinque anni, e i risultati si vedono. Premesso che nessuno può cantare come Dylan e Joan Baez, chi li ama non può non apprezzare il lavoro dei due attori (e dei loro coach musicali). Ma era indispensabile una mimesi così totale, al punto che c’è chi ha detto “tanto vale guardarsi Dont Look Back o No Direction Home”? Era indispensabile che Chalamet riprendesse alla lettera il modo di parlare/farfugliare di Dylan, al punto da rendere indispensabili i sottotitoli per capire quello che dice?

L’impressione è che tanta ansia mimetica da parte degli autori (il regista James Mangold e il suo co-sceneggiatore Jay Cocks) sia andata a discapito del racconto. E a farne le spese è soprattutto il ritratto di Suze Rotolo, ribattezzata nel film – dietro insistenza dello stesso Dylan - “Sylvie Russo”. Un po’ avvilente per lei, immortalata (meritatamente!) su una delle copertine più famose della Storia del rock. Lei che aveva fatto conoscere al giovane Bobby i simbolisti francesi, senza i quali difficilmente avremmo avuto, giusto per fare un titolo, A hard rain’s a-gonna fall

Suze è con Bob sulla copertina di un album leggendario

Così la povera Suze/Sylvie rimane confinata nella parte della povera fidanzatina che cede il passo alla star del folk Joan. Se non altro, a questo ruolo decisamente underwritten, poco approfondito, una brava Elle Fanning riesce comunque a dare corpo e sentimento. Comunque troppo poco, a mio avviso, per dare calore al film. Un film che alla fine, a differenza del suo protagonista, non azzarda, non osa, e rimane prigioniero dell’ortodossia del biopic come Pete Seeger dell’ortodossia folk. Ma d’altronde...

 Ah, my friends from the prison, they ask unto me

"How good, how good does it feel to be free?" 
And I answer them most mysteriously 
"Are birds free from the chains of the skyway?"
 
“Sono forse liberi gli uccelli dalle catene del cielo?”
 
(Ballad in Plain D, 1964)
 

Per approfondire:

su Pete Seeger: https://archivio.giornalettismo.com/pete-seeger-morto-pete-seeger/

su Suze Rotolo: https://www.marieclaire.it/attualita/gossip/a63428286/bob-dylan-suze-rotolo-storia-film/

https://www.indie-eye.it/recensore/letture/libri/sulla-strada-di-bob-dylan-memorie-dal-greenwich-village-di-suze-rotolo-la-recensione.html

Diamonds and Rust, la canzone di Joan Baez dedicata a Bob Dylan: https://www.youtube.com/watch?v=1ST9TZBb9v8

No Direction Home (2005), il documentario di Martin Scorsese su Bob Dylan è (per ora) visibile qui:

https://archive.org/details/no-direction-home-bob-dylan-2005-pt-2/No+Direction+Home+-+Bob+Dylan+(2005)+-+pt1.avi