L'11 maggio del 2010 usciva in edicola il dodicesimo e ultimo numero di Caravan, a tutt’oggi il lavoro a cui sono più legato.
Editorialmente parlando, un decennio
oggi equivale a un’era geologica. E considerate anche che l’idea della
serie era stata approvata da Sergio Bonelli ben quattro anni prima, nel 2006.
All’epoca, per quanto Caravan
non fosse la prima miniserie per la casa editrice, costituiva una
novità assoluta. Era la prima miniserie che non avesse per protagonista un
eroe, ma un "personaggio collettivo”: l’intera popolazione di
una cittadina in fuga, guidata da militari verso una meta sconosciuta
che avrebbe dovuto offrire rifugio da una minaccia altrettanto
sconosciuta, secretata per motivi di “sicurezza nazionale”.
Una storia on the road di
millecentoventotto pagine, divisa in dodici episodi e in continuity,
per quanto spezzata da flashback e da flashback dentro i flashback,
in una stratificazione di linee narrative certamente inedita per le pubblicazioni Bonelli (e, credo, con pochi precedenti anche oltreoceano).
Una storia in parte “italiana”,
nonostante la collocazione fisica negli Stati Uniti. I protagonisti
principali erano i componenti della famiglia Donati: Massimo Donati,
sua moglie Stephanie, i figli Davide ed Ellen, e un jackrussell
terrier di nome Chip.
Una storia - l'unica, credo - in cui, pur non raccontando nessun fatto reale della mia vita, ho riversato molto di me, anche se non a livello strettamente autobiografico. Forse ho scritto una sorta di autobiografia del mio immaginario, a cominciare dalla passione per la musica. Caravan inizia con una citazione musicale nascosta (il calcio di rigore del piccolo Nino di De Gregori), e si conclude con una citazione esplicita (ovviamente, di Bob Dylan). Esattamente nel mezzo del racconto, nel sesto episodio, c'è il mitico concerto italiano di Springsteen del 1984 (che non ho visto, e che ha un ruolo cruciale nella storia dei Donati).
Ma in Caravan c'è anche il cinema: che si incrocia con i fumetti, tramite Dellamorte Dellamore, e che diventa protagonista nel secondo episodio, dove racconto a modo mio Easy Rider. E poi ci sono le due città che mi hanno adottato, Milano e Firenze.
Una storia - l'unica, credo - in cui, pur non raccontando nessun fatto reale della mia vita, ho riversato molto di me, anche se non a livello strettamente autobiografico. Forse ho scritto una sorta di autobiografia del mio immaginario, a cominciare dalla passione per la musica. Caravan inizia con una citazione musicale nascosta (il calcio di rigore del piccolo Nino di De Gregori), e si conclude con una citazione esplicita (ovviamente, di Bob Dylan). Esattamente nel mezzo del racconto, nel sesto episodio, c'è il mitico concerto italiano di Springsteen del 1984 (che non ho visto, e che ha un ruolo cruciale nella storia dei Donati).
Ma in Caravan c'è anche il cinema: che si incrocia con i fumetti, tramite Dellamorte Dellamore, e che diventa protagonista nel secondo episodio, dove racconto a modo mio Easy Rider. E poi ci sono le due città che mi hanno adottato, Milano e Firenze.
Per il sottoscritto, scrittore né
prolifico né (fino a quel momento) particolarmente veloce, quello di Caravan è stato uno
sforzo mai sostenuto prima. Più di mille tavole ambientate in cinque
decenni diversi, attraversati da una folla di personaggi e di relativi automezzi da distinguere uno per uno,
affidata a uno staff di disegnatori da coordinare in ogni dettaglio,
vista la stretta continuity del racconto.
E non c’erano solo problemi organizzativi, ma
anche quelli che riguardavano il contenuto delle storie. Sergio Bonelli, com’è
noto, era tradizionalmente refrattario ad affrontare l’attualità e
argomenti “divisivi” nelle sue pubblicazioni. Una cosa era
inserire in una storia avventurosa qualche elemento realistico per
definire un determinato contesto, altro conto era fare accenni espliciti alla storia recente, alla religione, e parlare di un argomento come il terrorismo.
Perfino le copertine presentavano un
nodo da sciogliere, quello dell’assenza di armi e di qualsiasi
situazione di tensione. L'editore era sconcertato: che cosa
avrebbe potuto suggerire al lettore “bonelliano” una copertina
con due ragazzi sotto un cielo in tempesta?
Il problema ovviamente era aggirabile:
negli episodi di Caravan le armi sono presenti, e in qualche
caso fanno fuoco. Ma costruire le copertine sugli attimi più
drammatici e/o violenti del racconto avrebbe significato ingannare il
lettore.
Con Emiliano Mammucari, copertinista oltre che disegnatore, optammo per la massima
trasparenza possibile. Ma d’altronde, per i lettori, l’assenza di
elementi action dalle copertine era l’elemento meno
“provocatorio” di Caravan.
Riflessione col senno di poi: il cubo
di Rubik, che nella storia avevo usato come metafora della misteriosa
operazione Painted Sky, avrebbe potuto essere usato come
metafora della serie.
La sfida al lettore era costituita
dalla serie stessa: non esplicitamente avventurosa, e non
dichiaratamente fantascientifica nonostante l’enigmatica premessa.
Con lunghe sequenze di dialogo da racconto minimalista e con momenti
thriller. Saga familiare, ma anche romanzo di formazione, il tutto
narrato con uno zig-zag spaziotemporale tra luoghi e decenni diversi.
Caravan fu una serie apprezzata
e detestata con pari intensità dai lettori, e generò lenzuolate di
discussione sui forum, soprattutto per un finale che risultò
spiazzante per l’epoca. Specifico “per l’epoca” perché oggi,
dieci anni dopo, rileggere quei commenti sconcertati sembra
un’operazione di archeologia della narrazione: le serie tivù ci
hanno abituato a ogni sorta di contorsionismo narrativo
spaziotemporale, e ormai i finali “spiazzanti” sono così
frequenti che difficilmente spiazzano sul serio.
lettori nell'ultimo episodio di Caravan.
In ogni modo, visto che oggi si dibatte
su haters e odio “da social”, vale la pena ricordare anche
che accompagnai l’uscita della serie con un blog appositamente dedicato, e che i commenti furono sempre educati (nell’arco di
dodici mesi, quelli che eliminai si contarono sulle dita di una mano). Forse fu solo
fortuna. Forse fu il fatto che i social network allora non avevano la diffusione capillare di oggi. O forse, più semplicemente, fino a dieci anni fa vivevamo in un mondo non ancora completamente imbarbarito, chi lo sa.
Intanto, di acqua sotto i ponti ne è
passata tanta anche per la casa editrice, che ha pubblicato miniserie
molto diverse fra di loro, rompendo il monopolio del bianco e nero e
infrangendo il tabù del divieto all’ambientazione italiana (Il
commissario Ricciardi, Mercurio Loi, Cani sciolti).
Dunque, oggi probabilmente Caravan non sconcerterebbe il lettore come allora.
Dunque, oggi probabilmente Caravan non sconcerterebbe il lettore come allora.
Concludo con qualche dato oggettivo.
A un certo punto cominciò a correre sul web la voce che la serie fosse un fiasco. Non mi presi il disturbo di smentire. Non sono ossessionato dai tabulati di vendita. Ma se volete sapere come andò davvero Caravan, ve lo dico. Non fu esattamente un
successo, almeno secondo le cifre a cui la casa editrice era abituata, ma non andò
affatto male. Tirate le somme, la vendita media fu di 35/36.000
copie. Una cifra che oggi, per una miniserie, sarebbe da leccarsi i
baffi.
Inoltre, Caravan si aggiudicò
anche un paio di riconoscimenti fumettistici (uno a Lucca Comics & Games nel 2009 per le migliori
sceneggiature, e uno al Cartoomics di Milano nel 2010, per le
copertine di Emiliano Mammucari).
Fu pubblicata integralmente in Francia,
dalle edizioni Clair de Lune, e in Serbia dalla Phoenix Press.
Nel 2014 la serie è uscita in libreria
in una edizione riveduta e corretta, raccolta in due volumi che contengono sei
episodi ciascuno.
Ancora oggi Caravan rimane una serie unica nella storia della casa editrice. E credo che resterà
tale anche per me, frutto di un momento creativo probabilmente irripetibile. Il mio unico rimpianto è che i miei genitori non abbiano potuto leggerla. Ed è per questo che l'ho dedicata a loro.