domenica 3 novembre 2019

NEMESI



Devo essere sincero. Detto fuori dai denti, pensavo che Nemesi mi deludesse. Perché Walter Hill ha la sua età (77 anni), l’ispirazione sembra averla persa da un bel po’, e l’ultimo suo lavoro che mi sia veramente piaciuto è il western televisivo Broken Trail, una cosa di ormai tredici anni fa. Beh, Nemesi (The Assignment, in originale) mi sembra il suo film più convincente almeno dai tempi di Undisputed (2002). E non l’avrei mai detto, con una trama che può essere riassunta così: il killer Frank Kitchen si sveglia coperto di bende in una lurida stanza d’albergo. Si toglie le bende e scopre di essere diventato una donna. Scoprirà poi che a sottoporlo a un’operazione di “gender reassignment” è stata una dottoressa folle che voleva vendicare la morte del fratello.

Curioso che un film del genere venga dal cantore di un cinema quasi esclusivamente virile, e invece qui concentrato proprio sul dualismo maschile/femminile.

È evidente che non siamo proprio dalle parti del realismo, e quello che la trama fa pensare è che si tratti di un film flamboyant alla Besson o alla Verhoeven dei bei tempi, una fiaba metropolitana dalle tinte noir e sopra le righe. E invece no. Da uno spunto inverosimile – per dirla eufemisticamente – Hill distilla un film secco e asciutto, “chirurgico” (passatemi il termine) e spiazzante. Intendiamoci, c’è tutto quello che ti aspetteresti da un thriller urbano firmato Hill: periferie urbane illuminate da gelide luci al neon, spari col silenziatore, locali fast food popolati da una triste umanità hopperiana. Ma tutto spogliato dal divertimento delle Strade di Fuoco, dall’epicità dei Guerrieri della Notte e dalla stoica consapevolezza del tramonto dei Cavalieri dalle Lunghe Ombre.


Il vero nemico da battere, per questi anti-eroi (meglio: anti-eroine), è dentro di sé. Sia per il killer Frank Kitchen, diventato donna con le fattezze di Michelle Rodriguez, sia per la vendicativa dottoressa Rachel Jane (Sigourny Weaver), prigioniera della struttura psichiatrica che la rinchiude, della camicia di forza che le lega le braccia, ma soprattutto della propria ossessione perfezionista. E, soprattutto, del rapporto irrisolto con la propria femminilità.


Non pensate nemmeno per un secondo a un film di istanze LGBT. È vero che la visualizzazione è esplicita e non può fare a meno del full frontal, ma la regia è rigorosa e non concede nulla all’effetto pruriginoso.

Dalla minimale trama thriller condotta su binari paralleli (Rodriguez e Weaver), e movimentata dai flashback quel tanto che basta, esce fuori un film nient’affatto banale, che mette un punto interrogativo accanto alla definizione di “maschile” e “femminile” e al concetto stesso di “identità”. E che mostra quanto tortuosa possa essere la strada che porta all’accettazione di sé stessi.