domenica 3 novembre 2019

NEMESI



Devo essere sincero. Detto fuori dai denti, pensavo che Nemesi mi deludesse. Perché Walter Hill ha la sua età (77 anni), l’ispirazione sembra averla persa da un bel po’, e l’ultimo suo lavoro che mi sia veramente piaciuto è il western televisivo Broken Trail, una cosa di ormai tredici anni fa. Beh, Nemesi (The Assignment, in originale) mi sembra il suo film più convincente almeno dai tempi di Undisputed (2002). E non l’avrei mai detto, con una trama che può essere riassunta così: il killer Frank Kitchen si sveglia coperto di bende in una lurida stanza d’albergo. Si toglie le bende e scopre di essere diventato una donna. Scoprirà poi che a sottoporlo a un’operazione di “gender reassignment” è stata una dottoressa folle che voleva vendicare la morte del fratello.

Curioso che un film del genere venga dal cantore di un cinema quasi esclusivamente virile, e invece qui concentrato proprio sul dualismo maschile/femminile.

È evidente che non siamo proprio dalle parti del realismo, e quello che la trama fa pensare è che si tratti di un film flamboyant alla Besson o alla Verhoeven dei bei tempi, una fiaba metropolitana dalle tinte noir e sopra le righe. E invece no. Da uno spunto inverosimile – per dirla eufemisticamente – Hill distilla un film secco e asciutto, “chirurgico” (passatemi il termine) e spiazzante. Intendiamoci, c’è tutto quello che ti aspetteresti da un thriller urbano firmato Hill: periferie urbane illuminate da gelide luci al neon, spari col silenziatore, locali fast food popolati da una triste umanità hopperiana. Ma tutto spogliato dal divertimento delle Strade di Fuoco, dall’epicità dei Guerrieri della Notte e dalla stoica consapevolezza del tramonto dei Cavalieri dalle Lunghe Ombre.


Il vero nemico da battere, per questi anti-eroi (meglio: anti-eroine), è dentro di sé. Sia per il killer Frank Kitchen, diventato donna con le fattezze di Michelle Rodriguez, sia per la vendicativa dottoressa Rachel Jane (Sigourny Weaver), prigioniera della struttura psichiatrica che la rinchiude, della camicia di forza che le lega le braccia, ma soprattutto della propria ossessione perfezionista. E, soprattutto, del rapporto irrisolto con la propria femminilità.


Non pensate nemmeno per un secondo a un film di istanze LGBT. È vero che la visualizzazione è esplicita e non può fare a meno del full frontal, ma la regia è rigorosa e non concede nulla all’effetto pruriginoso.

Dalla minimale trama thriller condotta su binari paralleli (Rodriguez e Weaver), e movimentata dai flashback quel tanto che basta, esce fuori un film nient’affatto banale, che mette un punto interrogativo accanto alla definizione di “maschile” e “femminile” e al concetto stesso di “identità”. E che mostra quanto tortuosa possa essere la strada che porta all’accettazione di sé stessi.

giovedì 26 settembre 2019

GRAZIE, SERGIO

settembre 2011

Lo chiamavo “signor Bonelli” e gli davo regolarmente del lei. Non ho mai tentato di dargli del tu, né lui mi ha mai invitato a farlo. Il nostro era un rapporto di reciproco rispetto, pur nel gioco delle parti che imponeva all’editore di tirare le briglie e all’autore imponeva di cercare di allentarle. So che qualche volta – anche se lui non mi ha mai rimproverato direttamente – l’ho fatto arrabbiare. E sicuramente lui sapeva che qualche volta ha fatto arrabbiare me.

Ho frugato nella mia memoria alla ricerca di un ricordo preciso, di un aneddoto significativo sul “mio” Sergio Bonelli. Mi sono tornati in mente tanti momenti, quasi tutti piacevoli, alcuni perfino divertenti. E alla fine ho scoperto di esserne geloso, e perciò mi perdonerete se li tengo per me.

Ma c’è qualcosa di più di un aneddoto, che vorrei condividere.
Al funerale, con un groppo alla gola nel vedere la folla radunata per l’ultimo saluto, ho pensato due cose. La prima è che Sergio Bonelli aveva intrecciato la sua vita con quella di tante persone. La seconda cosa che ho pensato è stata che tra quelle persone c’ero anch’io. E che potevo ritenermi fortunato per questo.

Nell’estate del 1989 Sergio Bonelli disse di sì alla folle proposta di una serie di fantascienza. Folle non solo perché non c’era mai stata una serie di fantascienza a fumetti realmente popolare in Italia, ma anche perché la proposta veniva da tre giovani di cui il più grande era poco più che trentenne, e la cui esperienza professionale ammontava a così poche sceneggiature che potevi contarle sulle dita di una mano.

Ripensandoci oggi, a sangue freddo, quella non era nemmeno la proposta di un progetto. Era una sfida. Bonelli la raccolse.

Due anni dopo, Nathan Never uscì in edicola. E la sfida fu vinta. La serie fu un grande successo. Anche se non paragonabile per dimensioni a quello di Dylan Dog, quello di Nathan Never forse è stato l’ultimo vero successo “popolare” del fumetto italiano.
Per me, per i miei amici Antonio Serra e Bepi Vigna questo cambiò molte cose. Beh, diciamo pure che cambiò quasi tutto. Qualcuno ha detto: “Quando hai un sogno sta’ attento, perché potrebbe avverarsi”. Se credete che sia stata una passeggiata, no, non lo è stata.

Eppure non posso fare a meno di pensare che per me, se non ci fosse stato Nathan Never, non ci sarebbero state nemmeno altre cose belle e importanti. Non so quale direzione avrebbe preso la mia vita se quel giorno d’estate Bonelli avesse detto – e aveva mille ragioni per farlo – “No, grazie”.

Invece ci disse sì.

Ci diede la sua fiducia. E anche se personalmente credo di averla ripagata, a tutt’oggi non ho idea del perché ce l’avesse concessa. Per pudore non gliel’ho mai chiesto, e ora non potrò più farlo. Non potrò nemmeno dirgli grazie di persona.

Lo faccio ora, e per la prima e ultima volta mi permetto di dargli del tu: grazie, Sergio.

Per la tua fiducia, per i sogni avverati e sì, anche per le fatiche quotidiane che hanno reso irripetibile questa avventura.

Grazie per questo pezzo di vita.


 
 foto dal sito www.sergiobonelli.it

mercoledì 31 luglio 2019

EVAN HUNTER E IL CINEMA

Ci sono scrittori che si sentono maltrattati dal cinema (sono passate alla storia le rimostranze di Stephen King per Shining e di Michael Ende per La Storia Infinita), e ci sono scrittori realmente maltrattati dal cinema. Evan Hunter rientra, purtroppo, nella seconda categoria.

In realtà il suo rapporto col cinema era iniziato benissimo, nel 1955, con Il seme della violenza, l’ottimo film che Richard Brooks trasse dal suo primo romanzo, e che lanciò lo scrittore a Hollywood a cavallo tra gli anni cinquanta e i sessanta. Nel 1958, dopo tre film a basso budget tratti dai primi romanzi , il ciclo dell’87° Distretto (firmato con lo pseudonimo di ed McBain) approda sul piccolo schermo, con una serie di trenta episodi (mai trasmessi in Italia). Intanto lo scrittore lavora per Alfred Hitchcok alla serie televisiva Alfred Hitchcock presenta, e adatta per il grande schermo il proprio romanzo Gli amanti: il film, intitolato Noi due sconosciuti (1960), è diretto da Richard Quine. Nel 1961 a essere trasposto per il cinema è il romanzo La vita ladra, con il titolo Il giardino della violenza. C’è un cast notevole (Burt Lancaster, Shelley Winters, Telly Savalas) e un regista personale, John Frankenheimer, che però non apprezza il romanzo e spinge gli sceneggiatori a modificarlo in maniera massiccia. Il risultato, a parte qualche squarcio visivo di indubbio impatto, non è esaltante.

 

Con Anatomia di un rapimento (1963), Akira Kurosawa trasporta in Giappone un romanzo dell’87° Distretto, Due colpi in uno. E in seguito Hunter viene chiamato da Hitchcock a sceneggiare Gli uccelli. E', passatemi il gioco di parole, l’ultimo colpo d’ala dello scrittore nel cinema. La collaborazione con Hitchcock dovrebbe continuare con Marnie, ma si interrompe in fase di sceneggiatura. Sarà lo stesso Hunter a raccontare molti anni dopo nel libro Hitch e io (1997), il motivo della rottura: la scena dello stupro di Marnie, per Hunter, era tanto sgradevole quanto narrativamente inutile. E lo scrittore lo esternò candidamente. Hitchcock non si prese neanche il disturbo di licenziare Hunter di persona. Ci pensò la sua assistente Peggy Robertson. Hunter fu rimpiazzato con una sceneggiatrice, Jay Presson Allen, che gli disse: “Ti ha infastidito proprio la scena per cui lui ha deciso di fare il film. Ti sei comprato da solo il biglietto di ritorno per New York”.

Da quel momento in poi, il rapporto di Hunter col cinema non si interrompe del tutto, ma non produrrà più niente di memorabile. Il suo Buddwing (curiosamente intitolato in Italia Un romanzo), intenso racconto su un uomo in preda ad amnesia, genera un fiacco adattamento hollywoodiano con James Garner, intitolato Una donna senza volto (1966), per la regia di Delbert Mann.

Decisamente meglio I brevi giorni selvaggi (1969), diretto da Frank Perry e scritto da sua moglie Eleanor, basato sul romanzo L’estate scorsa: una storia di adolescenza inquieta, interpretata da una Barbara Hershey allora ventenne.

 
Gli anni settanta sono un decennio creativamente felice per l’autore, con i romanzi migliori dell’87° Distretto. Ma, curiosamente, la sua opera sembra suscitare più interesse in Europa che in patria. Tre romanzi dell’Ottantasettesimo vengono adattati per la tivù cecoslovacca, mentre il cinema che si interessa a Hunter/McBain è quello francese, con tre pellicole: Le cri du cormoran, le soir au dessus de jonques (1971), bizzarro titolo per l’adattamento di Una vita in gioco, romanzo a firma Hunter, diretto da Michel Audiard. Un film caduto nell’oblio e, a leggere le sconcertate recensioni, si capisce perché.

Segue Senza movente (1971), adattamento del romanzo dell’87° Lungo viaggio senza ritorno, diretto da Philippe Labro e con Jean Louis Trintignant, e infine Rosso nel buio (1978), tratto da Parenti di sangue per l’87° Distretto, diretto da Claude Chabrol e con Donald Sutherland nel ruolo dell’ispettore “Carrel”.


Se questi ultimi due titoli francesi sono adattamenti dignitosi, da dimenticare sono proprio le produzioni americane. Il primo film è tratto da un romanzo umoristico a firma Hunter, Il profumo dei dollari, ed è uscito anche in Italia col titolo Mafiosi di mezza tacca e una governante dritta (1972). Un buon cast (Lynn Redgrave, Victor Mature, Dom DeLuise), ma affidato all’anonimo Cy Howard. Il film è scomparso dalla circolazione, tanto che i commenti su IMDB sono solo quattro, e tutt’altro che entusiasti.


Il secondo film ha circolato abbastanza sulle nostre televisioni, almeno fino agli anni novanta: ...e tutto in biglietti di piccolo taglio (1972), tratto dal romanzo Allarme: arriva la madama. Sceneggiato dallo stesso Hunter e ambientato a Boston, doveva essere la consacrazione cinematografica dell’Ottantasettesimo, con un cast di tutto rispetto (Burt Reynolds, Raquel Welch, Yul Brynner). In mano al regista Richard Colla ne esce un film nella media dei polizieschi dell’epoca, che non riesce ad amalgamare efficacemente i momenti drammatici con quelli grotteschi.

Il decennio degli anni ottanta vede ancora una volta adattamenti all’estero (Giappone e Cecoslovacchia), mentre Hunter scrive sceneggiature per western televisivi. Gli anni novanta contano ben tre tentativi di puntata-pilota per un’eventuale serie sull’87° Distretto. Il primo, nel 1995, è 87° Distretto – L’impronta dell’assassino, tratto dal romanzo Fulmini per l’87° Distretto. Nel ruolo di Carella c’è un bravo attore che però non ha le physique du rôle, Randy Quaid. E Meyer Meyer è interpretato dall’attore Ron Perkins (che non è però completamente calvo come il personaggio). Non ci sono certamente le premesse per un successo, e infatti la serie non parte.

Secondo tentativo, un anno dopo: stavolta nei panni di Carella c’è il belloccio Dale Midkiff (almeno fisicamente, più in parte di Quaid), e in quelli di Meyer c’è Joe Pantoliano, mentre Andrea Ferrell è Teddy Carella, e Michael Gross (il papà di Casa Keaton) è il capitano Byrnes. Ad adattare il romanzo (Ghiaccio per l’87° Distretto) c’è quella vecchia volpe di Larry Cohen, scrittore e regista di un’infinità di B-movies (Il serpente alato, Baby Killer, Maniac Cop). Il titolo italiano del tv movie è Un caso difficile per l'87° Distretto.


Il riscontro convince il network a riprovarci un anno dopo con lo stesso cast, tranne Pantoliano sostituito da Paul Ben Victor, e l’aggiunta di Erika Eleniak nella parte della poliziotta Eileen Burke. Il romanzo scelto per l’adattamento è Troppo caldo per l’87° Distretto, col titolo Donne in trappola (1997). Ma siamo sempre ampiamente nei confini della medietas televisiva, e il tentativo di portare l’Ottantasettesimo in tivù naufraga definitivamente. In termini di poliziesco televisivo, Hill Street giorno e notte ha già detto tutto quello che c’era da dire, proprio replicando la formula inventata da Hunter/McBain per il suo Ottantasettesimo. Un amaro boccone che lo scrittore non riuscirà mai a mandare giù. (“Perfino Furillo suona come Carella”, si lamentò Hunter, riferendosi a uno dei protagonisti di Hill Street).

Curiosamente, ad affacciarsi sugli schermi televisivi negli anni duemila è un altro personaggio seriale a firma McBain, l’avvocato Matthew Hope. Il romanzo scelto è Tre topolini ciechi (titolo che richiama una famosa filastrocca) e il tv-movie è intitolato da noi, senza troppa fantasia, Un caso difficile per Matthew Hope (2001). Ma l’attore scelto, Brian Dennehy, per quanto incisivo, è fisicamente e anagraficamente distante dal personaggio dei romanzi. Il risultato è un altro prodotto “medio” per un sabato pomeriggio davanti al piccolo schermo, ma abbastanza dimenticabile.

A ricordarsi dell’Ottantasettesimo è invece il Giappone, con ben tre adattamenti negli anni duemila, tra cui il secondo di quel King’s Ransom già portato sullo schermo da Kurosawa. Ma Evan Hunter è già scomparso nel 2005.

IMDB ci informa che l’ultimo film tratto da un’opera dello scrittore è un cortometraggio canadese, Spin, ispirato a un vecchio racconto firmato come Ed McBain.

venerdì 26 luglio 2019

L'UOMO CHE AVEVA VISTO COSE

Articolo pubblicato il 30 settembre 2008, in occasione della visita di Rutger Hauer a Milano per la rassegna di cortometraggi "I've seen films".


Quando l’attore si trovò di fronte quella pagina di dialogo, anzi, di monologo, disse al regista che gli sembrava troppo lungo, e che voleva sfoltirlo.” Fai pure”, disse il regista tagliando corto. Era già in ritardo sulla lavorazione, i costi del film erano saliti ben oltre il budget. Qualsiasi soluzione che accorciasse i tempi era ben accetta.

Al ciak l’attore sintetizzò il monologo in cinque righe, che cominciavano così: – Io ne ho viste, cose che voi umani non potreste immaginarvi... (in originale: I've seen things you people wouldn't believe...)

Quando il regista diede lo stop, né lui né l’attore sapevano di avere girato quello che sarebbe stato il monologo cinematografico più amato, citato, parodiato nell’ultimo scorcio del ventesimo secolo.

Al momento di interpretare la parte del replicante Roy in Blade Runner, l’attore olandese Rutger Hauer ha già quarantadue anni, ma è solo al suo secondo film in lingua inglese.

La carriera di Hauer comincia alla tv olandese nel 1969, quando il regista Paul Verhoeven lo sceglie come protagonista della serie Floris, imperniata sulle avventure di un cavaliere medievale.



Il successo della serie è tale che il sodalizio tra regista e attore continua al cinema, con ben quattro film nell’arco di sette anni, dal 1973 al 1980: Fiore di carne, Kitty Tippel, Soldato d’Orange e Spetters.

Durante questo periodo Hauer gira anche qualche film in Germania, tra cui il drammatico (in vari sensi della parola) Pusteblume, uscito anche in Italia con l’agghiacciante titolo La donna che violentò se stessa. Ma non smette mai di lavorare nel teatro, che considera il suo “vero” lavoro. In quel periodo vive con la moglie in una casa in campagna, in una zona così isolata da non avere nemmeno la linea telefonica.

Uscito dalla compagnia teatrale dopo uno screzio col direttore artistico, decide di compiere quello che per lui è un salto nel buio: lasciare il “sicuro” lavoro teatrale per tentare l’incerta carriera cinematografica.
Riesce così a lavorare in due grosse produzioni internazionali, Il seme dell’odio e Max Havelaar. Ma sarà Soldato d’Orange (1979), che racconta la resistenza olandese durante la seconda guerra mondiale, ad attirare l’attenzione di Hollywood, ricevendo anche dei premi.

Durante un viaggio a New York per promuovere il film qualcuno suggerisce ad Hauer – che parla discretamente l’inglese – di trovarsi un agente americano. L’attore accetta il consiglio, e poco tempo dopo ottiene la parte del terrorista Wulfgar nel thriller metropolitano I falchi della notte, facendo da antagonista a Sylvester Stallone. L’anno seguente è chiamato a interpretare Roy Batty in Dangerous Days (titolo di lavorazione di Blade Runner). E il resto, come si dice, è Storia.

Blade Runner ha rischiato di far diventare Hauer una star, procurandogli in seguito molte parti da protagonista (soprattutto nel ruolo del cattivo) per tutto il decennio degli anni ottanta. Hauer è stato un autostoppista assassino (in The Hitcher, forse il suo ruolo migliore dopo il film di Scott), e due volte cavaliere medievale: una come eroe positivo (in Ladyhawke) e una come spietato mercenario (L’amore e il sangue, di nuovo per la regia di Paul Verhoeven). È stato anche un barbone in cerca di redenzione (La leggenda del santo bevitore), giornalista coinvolto in un intrigo spionistico (Osterman Weekend), ma soprattutto è stato killer o giustiziere in una pletora di thriller a cavallo tra gli anni ottanta e gli anni novanta. Dalla fine degli anni ottanta, infatti, Hauer sembra accettare i copioni a occhi chiusi: Furia cieca, Wanted – Vivo o morto, Le mani della notte, Detective Stone sono tutti film che scivolano via senza lasciare tracce nella memoria. Il periodo successivo lo vede più sul piccolo che sul grande schermo, fino al ritorno all’attenzione del grande pubblico nel 2005 in un ruolo piccolo ma carismatico: quello del malvagio cardinale Roark in Sin City.



Attore instancabile con più di cento film all’attivo, ma sempre lontano dal jet set e da Hollywood, Hauer non è mai stato un chiacchierone, e ha cominciato a raccontarsi solo di recente. L’anno scorso è uscita la sua autobiografia scritta con Patrick Quinlan (All those moments, “Tutti quei momenti”, ovvia citazione da Blade Runner).

All those moments riserva diverse sorprese. Innanzitutto non è una autocelebrazione che si preoccupa di esternare l’Hauer–pensiero sui massimi sistemi e sul Cinema con la C maiuscola, ma uno spaccato su quasi quarant’anni di carriera; una sorta di diario che, a parte l’ovvio risalto a Blade Runner, racconta di filmoni e di filmetti con identico, sereno distacco.

La seconda sorpresa di All those moments è il candore con cui Hauer racconta la sua storia d’amore con Ineke Ten Kate, la sua seconda moglie, incontrata nel 1968, sposata nel 1985 e tuttora al suo fianco.

La terza sorpresa è il vero motivo per cui questa autobiografia minimale è stata scritta. Tutti i proventi di All those moments, infatti, vanno all’associazione Starfish (stella marina, ndr), fondata dallo stesso Hauer per la lotta all’AIDS. Hauer racconta che l’idea dell’associazione nacque durante il soggiorno, per le riprese del film Jungle Juice, nell’arcipelago caribico di Turks e Caicos. Un posto paradisiaco, ma la cui popolazione era letteralmente falcidiata dall’AIDS.

A tutt’oggi, l’attività della Starfish occupa gran parte del tempo di Rutger Hauer, ed è inestricabilmente intrecciata con quella della Rutger Hauer Filmfactory, la scuola di cinema fondata da Hauer in Olanda.

Curiosamente, entrambe le attività vedono coinvolta l’Italia. Non solo perché la Starfish ha sede legale a Milano, ma anche perché proprio a Milano (o meglio, al multisala Skyline di Sesto San Giovanni) Hauer ha allestito la rassegna–concorso di corti I’ve seen films nello scorso settembre. E si è speso con prodigalità encomiabile, presentando ogni giornata di proiezioni.

A sessantasei anni (peraltro ben portati), Rutger Hauer non è diventato una star. “Una star è un prodotto – ha detto – e io sono un attore”. E in effetti, solo una star come Harrison Ford (di due anni più anziano di Hauer) può preoccuparsi di risultare ancora credibile in un ruolo d’azione. Hauer, non più preoccupato (se mai lo è stato) di mantenere lo status di star e icona virile, oggi si divide tra piccoli ruoli carismatici come quello in Sin City e il comprimariato di lusso in kolossal come Batman. E continua a non rifiutare interpretazioni prettamente “alimentari”.

Intervistato all’apice del suo successo negli anni ottanta, al giornalista che gli chiedeva cosa significava essere un vincente rispose: “Non credo che nella vita si arrivi a vincere veramente. Al massimo si arriva a capire qualcosa in più”.

domenica 21 luglio 2019

IL GRANDE ROMANZO DI ED McBAIN

Visto che Einaudi sta riproponendo in libreria i romanzi di uno dei miei scrittori preferiti, Evan Hunter aka Ed McBain, che ci lasciava quattordici anni fa, proprio nel mese di luglio, ripropongo qua sotto il pezzo che scrissi allora.


Oggi il nome di Evan Hunter non è notissimo al pubblico italiano. Probabilmente solo qualche cinefilo ricorda che è firmata Evan Hunter la sceneggiatura di uno dei più celebri film di Hitchcock, Gli uccelli. E forse i vostri nonni ricordano anche il film Il seme della violenza, diretto da Richard Brooks (1955) e tratto dal primo libro (e primo best-seller) di Hunter.

Fu un film che fece discutere, uno dei primi a portare sugli schermi il disagio giovanile, prototipo di quel filone della serie "insegnanti e ragazzi difficili" inaugurato al suono del celeberrimo Rock around the clock di Bill Haley.

Ma la vera popolarità Hunter la conquistò nel 1956, quando, ad appena trent'anni, diede il via alla serie poliziesca dedicata all'87° Distretto, firmandola con lo pseudonimo di Ed McBain.

Il successo fu tale che la fama di "McBain" finì per superare quella di Evan Hunter. Il primo romanzo con l'87° Distretto, L'assassino ha lasciato la firma, presentava diverse novità rispetto alla letteratura poliziesca contemporanea. In primo luogo, la formula narrativa scelta dall'autore era quella del cosiddetto police-procedural: il giallo basato non sul classico "chi è stato?" ma sulla descrizione dettagliata e realistica dell'indagine poliziesca. Non si trattava di una novità assoluta, in realtà; altri scrittori avevano già affrontato il poliziesco "realistico", ma Hunter-McBain adottò la formula con un tale rigore da essere reputato, alla fine, l'inventore di questo filone della fiction poliziesca.


Ai romanzi dell'87° Distretto – subito adattati per la tivù negli anni cinquanta - devono qualcosa tutte le serie poliziesche successive, dal vecchio I detectives con Robert Taylor fino al famoso Hill Street giorno e notte, dove le strutture narrative di McBain sono riprese con rigore quasi filologico, seppure virate in grottesco secondo un gusto che anticipava gli anni novanta. E va detto che lo scrittore non apprezzò affatto Hill Street: gli sembrò un tentativo di impadronirsi della sua idea senza pagarne i diritti. Perché la novità dirompente dei romanzi di McBain consisteva proprio nella concezione del distretto come protagonista collettivo: non più un solo eroe, ma un gruppo di uomini, cioè tutti i componenti della squadra investigativa: un gruppo eterogeneo che rappresenta perfettamente il melting pot, il crogiuolo razziale che popola le metropoli americane. Nel gruppo spicca l'italo-americano Steve Carella (che McBain fa sposare con una ragazza sordomuta ben quarant'anni prima del politically correct), l'ebreo Meyer Meyer, l'irlandese Bob O'Brien, il nero Arthur Brown, e gli americani wasp Bert Kling e Cotton Hawes.


Se è vero che Hunter/McBain aveva una particolare simpatia per Steve Carella e lo rendeva un po' più protagonista degli altri, è vero che nei romanzi dell'87° anche i semplici passanti possono essere protagonisti per qualche pagina. Ma soprattutto possono essere protagoniste le donne, che lo scrittore apprezzava anche nella vita (ebbe tre mogli: Mary Vann, Anita Melnick e Dragica Dimitrievic'). Mogli, fidanzate, amanti, dark ladies o poliziotte, le donne hanno sempre avuto grande spazio nei romanzi dell’87°, al punto che alle donne della saga furono dedicate ben due antologie: Mc Bain’s Ladies – The Women of the 87th precinct (1988) e Mc Bain’s Ladies, too (1989).

Ma soprattutto - e questa era un'altra novità - altra protagonista dei romanzi di McBain era la metropoli. Anche in questo caso, McBain non fu certo il primo ad ambientare una serie poliziesca in una grande città. Ma con McBain era la prima volta che la città - con le sue avenues, gli slums fatiscenti, i ghetti, il fiume, il parco - assurgeva al ruolo di protagonista. Mai prima di allora un autore di mystery aveva dato tanto peso alla rappresentazione di una metropoli, descritta minuziosamente e, soprattutto, completamente inventata. La città dell'87° Distretto, infatti, non ha nome e non esiste se non nella fantasia dell'autore; ma in compenso la sua toponomastica fittizia - con il quartiere centrale di Isola, il Grover Park, Calm's Point, Riverhead - è diventata familiare ai lettori quanto l'inconfondibile sagoma di Manhattan immortalata da centinaia di film e telefilm.

Con più di cinquanta romanzi in quasi cinquant’anni, la serie dell'87° Distretto rappresenta una vera e propria saga contemporanea dalle atmosfere eterogenee, che variano - come scrisse un critico – “dal terrore puro al divertimento irresistibile”. Ben lontano dalle ripetizioni imposte dalla serialità, McBain ha strutturato quasi tutte le sue storie su un'idea di volta in volta diversa dalle precedenti. Nel romanzo Confessione di un presidente all'87° Distretto, ad esempio, si adombra metaforicamente la parabola di Nixon attraverso la confessione del capo di una gang giovanile. 87° Distretto: Tutti presenti si svolge nell'arco di ventiquattr'ore, durante le quali seguiamo le vicende di tutti gli agenti della squadra. In Chiamate Frederick 7-8024 compare per la prima volta "Il Sordo", un criminale senza nome che ritorna in vari romanzi, e costituisce per l'ottantasettesimo quello che Moriarty era per Sherlock Holmes. Attentato Carella ha la struttura di una piéce teatrale virata in thriller: è ambientato per tre quarti nella sala agenti del distretto, dove una donna impazzita tiene in ostaggio i presenti con una fiala piena di nitroglicerina. Ma il romanzo più curioso - e più amaro - è forse Tutto regolare, mamma, dove gli agenti dell'87° compaiono solo in una manciata di pagine: il protagonista, infatti, è un singolare tipo di assassino malato di solitudine, che suscita più la pietà che lo sdegno del lettore.


Negli anni settanta, oltre a scrivere sceneggiature per cinema e tivù e alcuni romanzi a firma Evan Hunter, McBain scrive un bellissimo noir, Bocche di fuoco (1976) e avvia un’altra serie, ambientata in Florida: stavolta il protagonista è uno solo, l’avvocato Matthew Hope. Ma naturalmente la saga dell’ottantasettesimo continua, e forse il decennio degli anni settanta è quello creativamente più felice.

Negli anni ottanta McBain firma uno dei romanzi più belli della serie, Ghiaccio per l’87° Distretto (1983), ricco dell’abituale mix di violenza e ironia che caratterizza le sue storie. Negli anni novanta i romanzi dell’87° si fanno sempre più cupi, e lo scrittore confessa la sua difficoltà a tenere il passo con la violenza che sembra permeare ogni aspetto della nostra vita quotidiana. L’ultimo grande libro di McBain è Notturno (1997), forse il suo romanzo più cupo e disperato.

Nel settembre 2001 esce Money, in cui climax è un attentato in un teatro ad opera di un gruppo di estremisti islamici. Pochi giorni dopo, la realtà dimostrerà di essere ben peggiore della più macabra delle fantasie.

I romanzi degli anni duemila mostrano chiaramente che la sofferenza dei personaggi è la stessa dello scrittore (e forse anche dell’uomo, colpito dalla malattia): gli eroi sono stanchi, quasi sommersi da quel fango in cui sguazzano i criminali. Toccato il fondo, non resta che lo sberleffo: in Il rapporto scomparso e Il party prevale un’ironia amara che assume spesso connotati grotteschi.


McBain ha percorso un cammino simile a quello del regista Robert Aldrich: se i suoi poliziotti non arrivano a somigliare a quelli del film I Ragazzi del coro (1977), è pur vero che negli ultimi romanzi il dramma si stempera in un succedersi di colpi di scena determinati da un Caso beffardo.

Benché colpito dal cancro, lo scrittore continua a lavorare, prolifico e disciplinato come sempre. Il suo ultimo romanzo, Traditori, esce postumo, nel settembre 2005. E' il cinquantacinquesimo e ultimo dedicato a Steve Carella e ai suoi compagni.

Tra tanti romanzi dell’87° Distretto, è difficile indicarne uno in particolare come il migliore del ciclo. E forse la vena inesauribile che spingeva Evan Hunter a scrivere dieci ore al giorno gli ha impedito di scrivere un romanzo che si potesse definire un capolavoro, che avesse la statura del classico.

E’ probabile che lo scrittore se ne rendesse conto. Aveva detto: “Considero i miei romanzi dell’87° Distretto non proprio come libri a sé stanti, ma come tanti capitoli di una saga che terminerà quando sarà morto.”

Il 6 luglio 2005 la saga si è conclusa. E quell’unico, grande romanzo - il suo capolavoro - è finito.

Nel 2010 il paese di Ruvo Del Monte ha concesso a Evan Hunter la cittadinanza onoraria alla memoria. Se Ed McBain era uno pseudonimo (ma lo scrittore ne usò molti altri), “Evan Hunter” era il nome da lui assunto legalmente solo negli anni cinquanta. Hunter era figlio di genitori lucani immigrati negli USA da Ruvo, e il suo nome di battesimo era Salvatore Lombino.

Einaudi sta ristampando i romanzi dell'87° Distretto con titoli diversi da quelli delle edizioni Mondadori. Ecco quelli usciti finora.

Odio gli sbirri (1956), pubblicato da Mondadori come L'assassino ha lasciato la firma (primo romanzo del ciclo)
Fino alla morte (1959) come Tutti per uno all'87° Distretto
La voce del crimine (1960) come Chiamate Frederick-8024
Ninna nanna (1988) come Ninna nanna per l'87° Distretto
Canicola (1981) come Troppo caldo per l'87° Distretto
L'uomo dei dubbi (1964) come Tutto regolare, mamma