lunedì 31 luglio 2023

L'OMBRA DELLA VENDETTA

Su Prime c’è un film piccolo piccolo (anche nella durata: 90 minuti scarsi), che non si è filato nessuno, e che merita una chance. Il titolo è L’ombra della vendetta (Five Minutes of Heaven, 2009). Si tratta di una produzione irlandese, probabilmente un ripiego per il regista tedesco Oliver Hirschbiegel (The Experiment, La caduta), dopo la travagliatissima produzione di Invasion, l’infelice remake de L’invasione degli ultracorpi.

La trama, ispirata a fatti realmente accaduti, è semplicissima: nel 1975, in una Belfast dilaniata dalla guerra civile, il protestante Alistair (Mark Ryder, I Borgia) uccide un ragazzo cattolico sotto gli occhi del fratellino Joe (il piccolo Kevin O’Neill, nel suo primo e finora unico ruolo cinematografico).

Trentatré anni dopo, nel 2008, un network televisivo offre ad Alistair (Liam Neeson) e a Joe (James Nesbitt) l’occasione di incontrarsi davanti alla telecamere: lo scopo è esortare un paese ancora diviso in due alla reciproca comprensione e al perdono. Alistair è ormai un uomo maturo, totalmente diverso dal fanatico che era. Scontata la sua pena in carcere, da anni gira il mondo per raccontare la sua esperienza e diffondere un messaggio di pace. Joe si è sposato, ha due bambine, ma l’omicidio del fratello ha segnato la sua infanzia, alienandogli l’amore della madre, che gli ha sempre rimproverato di non avere fatto niente per fermare l’assassino. Pur dopo tanto tempo, la ferita nell'anima di Joe brucia ancora.

 
 
I due uomini vengono accompagnati separatamente al castello dove il network sta allestendo il set per la trasmissione, e resteranno separati fino al momento di andare in onda. Si incontreranno soltanto davanti alle telecamere. Regista, assistenti, truccatrici si prodigano per mettere ciascuno dei due a loro agio. Alistair, abituato a parlare ai microfoni, tiene sotto controllo l’inevitabile disagio. Ma il problema è Joe: perché dentro di lui la tensione monta inesorabilmente, ora dopo ora, fino aa rivelare un’inquietudine che può portare a tutto fuorché a una riconciliazione...

L’ombra della vendetta è praticamente un film “da camera”, girato quasi completamente in interni. Una prova di notevole abilità registica da parte di Hirschbiegel e una prova d’attore per i due interpreti. Neeson è la star che conosciamo e si cala con ovvia naturalezza nei panni dell’assassino redento, ma qui è una sorpresa James Nesbitt. Già poliziotto infiltrato, maschera di ghiaccio e nervi d’acciaio nella serie Murphy’s Law, qui Nesbitt dà vita a un personaggio totalmente diverso: uno sfortunato psicolabile che ha atteso trent’anni per avere i suoi “cinque minuti di paradiso” (titolo originale del film). Ma che non saranno esattamente come se li aspettava. 

Per due terzi – quelli della preparazione all’incontro televisivo nel castello – il film è un gioiello di tensione sapientemente distillata, mentre nell’ultimo terzo lo scioglimento finale resta un po’ soffocato dalla sua stessa coerenza. In ogni caso, in mezzo a tante produzioni fatte con lo stampino, L’ombra della vendetta è una boccata d’ossigeno e merita un recupero. Last but not least: lo sceneggiatore è Guy Hibbert, che qualche anno dopo firmerà un altro interessante dramma claustrofobico, Il diritto di uccidere (2015) per la regia di Gavin Hood.

Qui trovate il trailer originale: https://www.youtube.com/watch?v=uZOE7HgvI3c

Qui un’intervista al regista Oliver Hirschbiegel: https://www.altfg.com/film/oliver-hirschbiegel-interview/


 

mercoledì 26 luglio 2023

BARBIE, ovvero LIFE IN PLASTIC IT'S FANTASTIC

Visto che al cinema ci sono un film di Greta Gerwig e uno di Christopher Nolan, viene da pensare che il film di Nolan sia Barbie. Perché lo sforzo (o meglio, lo sfarzo) produttivo è da kolossal, per la grandiosità della messa in scena e le invenzioni visive (e non tele-visive). Una dichiarazione di intenti è già nel prologo, ricalco fedele dello storico incipit di 2001: Odissea nello spazio: Barbie-monolito scende sulla Terra per aiutare il genere femminile a compiere il balzo evolutivo oltre il patriarcato. Il primo atto è già stupefacente di per sé, un’esplosione di musica e colori mozzafiato. Barbie – una Margot Robbie travolgente - vive felice nel suo mondo di plastica, finché è assalita all’improvviso da inspiegabili pensieri di morte. Un malessere interiore che prelude al tracollo fisico, preannunciato da un curioso fenomeno: i famosi piedini sagomati apposta per i tacchi alti, e quindi sempre in equilibrio sulle punte, tornano orizzontali: i talloni ora toccano il terreno. Una efficace trovata che funziona su due livelli, quello visivo e quello metaforico: Barbie “mette i piedi per terra” in tutti i sensi: l’unico modo per sconfiggere il suo inedito spleen è andare nel mondo reale e trovare la bambina che, giocando con lei, tira i fili della sua vita. Ken però decide di seguire Barbie, e il loro viaggio nel mondo umano – cioè in California – avrà conseguenze molto diverse per i due. 

 

Le loro strade infatti si separano: Barbie scopre che il suo malessere risale non ai giochi di una bambina, ma ai sogni infranti di una madre single. Grazie all’incontro con la sua creatrice alla Mattel acquisterà coscienza del girl power, mentre Ken sarà attratto dalla mascolinità tossica, a base di poster con cavalli al galoppo e frigoriferi pieni di birra. E quando Barbie torna al suo mondo lo trova rimodellato al maschile, non più Barbieland ma Kenland (“Kendom-land”, specifica lui, laddove la parola suona come “Kingdom”, regno). A Barbie non resterà che mettere a frutto la sua lezione di vita nel mondo reale per guidare tutte le Barbie alla riscossa contro lo strapotere maschile. Colorato, eccessivo, citazionista, a tratti demenziale, il film tenta l’ardua impresa di celebrare il successo di un brand sotto la lente di uno sguardo autoriale. E in effetti la sceneggiatura riesce a infilare più di una arguta considerazione sul conflitto tra le due metà del cielo, senza rinunciare a un ritmo vivace, retto alla grande da interpreti perfettamente affiatati. Impagabili i duetti Robbie-Gosling, ben controbilanciati da quelli tra America Ferrera e la giovanissima Ariana Greenblatt, così da evitare che il registro demenziale (dominante in tutta la parte di Will Ferrell) faccia deragliare il film. Tutto perfetto, meraviglioso e luccicante come Barbieland, allora? 

 


Non proprio: perché nel secondo atto la logica fiabesca del racconto a volte si inceppa in passaggi farraginosi, e la voglia di femminismo militante straripa a danno delle figure maschili: per quanto alcune battute sul patriarcato risultino centrate, le forze in campo risultano in effetti assai sbilanciate a favore del mondo femminile; a maggior ragione quando si nota che le varie Barbie-scrittrice, Barbie-premio Nobel, Barbie-campionessa di atletica non hanno un equivalente maschile tra i vari Ken, tutti livellati sul modello “tipo da spiaggia”, e nemmeno particolarmente virile, tanto da fare sembrare il loro esercito un fan club dei Village People. Se qualche Ken fosse risultato somigliante a Brad Pitt, Hugh Jackman o Chris Hemworth, il cedimento delle Barbie al loro fascino sarebbe risultato più credibile, e l’esito finale della battaglia dei sessi meno scontato. Sul piano dei contenuti, Barbie finisce così per risultare un po’ penalizzato dal proprio azzardo proprio nel finale, sbandando allegramente tra divertimento puro e statement femminista senza tenere sempre la barra dritta. Ma le considerazioni sociologiche vengono in seconda battuta: sorretto da interpreti in stato di grazia, ingegnose trovate visive e un ritmo vivace, il film di Greta Gerwig (co-scritto col marito Noah Baumbach) sfoggia una vitalità contagiosa. E si esce dalla sala – perché sì, è un film da vedere su grande schermo - col sorriso.