martedì 28 gennaio 2025

A COMPLETE UNKNOWN

 A complete unknown (2024), di James Mangold

Prima di tutto, questo post richiede una premessa. Anzi, due.

Premessa 1: le canzoni di Bob Dylan sono parte della mia vita. Una parte importante, se non fondamentale, alla pari dei fumetti che ho letto e che mi hanno poi spinto a farli, i fumetti. E poco è mancato che Nathan Never non avesse l’aspetto di Bob Dylan, come raccontato qui: https://youtu.be/jTiVLdQY0lI?t=754

Premessa 2: non sopporto Thimotée Chalamet. Non mi piace, non gli riconosco nessun carisma, non mi trasmette niente.

E quindi, può essermi piaciuto A complete unknown, dove un attore che non mi dice nulla interpreta un musicista che mi ha detto così tanto? The answer, my friend...

Diciamo subito che c’è poco da discutere sulle qualità tecniche del film. Una ricostruzione così meticolosa e credibile degli anni Sessanta non la si vedeva, forse, dai tempi di Forrest Gump. E le interpretazioni di contorno sono semplicemente inappuntabili. Per essere composto da attori poco conosciuti (almeno da noi), il cast è di livello. Svetta, come molti hanno rimarcato, Edward Norton nei panni di Pete Seeger (affiancato peraltro da una brava Eriko Hatsune nel ruolo della moglie Toshi). Ma efficacissimo – anche per somiglianza fisica – è Dan Fogler nei panni del manager di Dylan, Albert Grossman, senza dimenticare Boyd Holbrook come Johnny Cash, e Norbert Leo Butz nella parte del sanguigno musicologo Alan Lomax. 

 
Edward Norton nella parte di Pete Seeger

Che cosa non gira a dovere, allora, soprattutto nella prima parte? Molto semplice: il film non emoziona, non “morde”. Prima di tutto perché semplifica un po’ troppo la figura del protagonista. Intendo non in termini di verità storica, ma proprio di narrazione. Se non sapessimo che quel Bobby arrivato in città, come dice lui stesso (mentendo) dal New Jersey è destinato a diventare un’icona del ventesimo secolo, lo troveremmo interessante? Ogni persona che incontra casca subito ai suoi piedi. Prima di tutti il suo idolo Woody Guthrie, che gli passa idealmente il testimone di portabandiera del folk regalandogli un’armonica; poi il grande Pete Seeger, poi la cantante giovane-ma-già-famosa, poi la coltissima studentessa di origini italiane. 

Sì, certo, Dylan era già magnetico, ma non solo perché scriveva quelle canzoni. Il fatto è che non era poi così ombroso. Aveva anche senso dell’umorismo, sapeva essere simpatico, e a momenti – ce ne sono parecchie testimonianze, soprattutto nella biografia di Anthony Scaduto – faceva addirittura tenerezza. Ma c’era anche, e forse soprattutto, una sfrenata, bruciante ambizione che lo portava a calcolare strategicamente ogni passo verso una fama stellare. Poi, certo sarebbero venuti gli sbalzi d’umore, i capricci da divo, e una certa “disempatia”, alimentata probabilmente da lunghe notti insonni passate a scrivere, col supporto di alcol e pasticche.

Il Greenwich Village degli anni '60 ricostruito nel film

Peccato che di tutto ciò non ci sia traccia, in una caratterizzazione che mostra un giovane Zimmerman sornione (Chalamet sembra sempre sul punto di cadere addormentato), mai realmente eccessivo, e soprattutto mai veramente in difficoltà. Di antipatie, rivalità, problemi coi discografici non c’è alcun cenno.

Insomma, un ragazzotto che è già His Bobness. Tutto fila liscio, a parte la difficoltà – difficoltà per chiunque di noi, ma non per lui – di destreggiarsi tra due fidanzate. E così il racconto arranca, soprattutto nella prima parte, con rari sussulti (comunque molto bella la scena della crisi cubana, in cui si ha la sensazione che la guerra con l’URSS sia a un passo).

Le palpebre si risollevano nella seconda parte, col Dylan già divo, già “elettrico”, e non solo musicalmente. Qui l’abbondanza di materiale di repertorio consente a Chalamet di avere più punti di riferimento, e di vestire i panni di Dylan in maniera così camaleontica che sembra di trovarsi davanti a una versione a colori di Dont Look Back. E qui sta forse il cuore del problema: tutto questo “realismo” era davvero necessario?

Monica Barbaro/Joan Baez al festival folk di Newport

La preparazione di Chalamet e di Monica Barbaro/Joan Baez per cantare e suonare è durata cinque anni, e i risultati si vedono. Premesso che nessuno può cantare come Dylan e Joan Baez, chi li ama non può non apprezzare il lavoro dei due attori (e dei loro coach musicali). Ma era indispensabile una mimesi così totale, al punto che c’è chi ha detto “tanto vale guardarsi Dont Look Back o No Direction Home”? Era indispensabile che Chalamet riprendesse alla lettera il modo di parlare/farfugliare di Dylan, al punto da rendere indispensabili i sottotitoli per capire quello che dice?

L’impressione è che tanta ansia mimetica da parte degli autori (il regista James Mangold e il suo co-sceneggiatore Jay Cocks) sia andata a discapito del racconto. E a farne le spese è soprattutto il ritratto di Suze Rotolo, ribattezzata nel film – dietro insistenza dello stesso Dylan - “Sylvie Russo”. Un po’ avvilente per lei, immortalata (meritatamente!) su una delle copertine più famose della Storia del rock. Lei che aveva fatto conoscere al giovane Bobby i simbolisti francesi, senza i quali difficilmente avremmo avuto, giusto per fare un titolo, A hard rain’s a-gonna fall

Suze è con Bob sulla copertina di un album leggendario

Così la povera Suze/Sylvie rimane confinata nella parte della povera fidanzatina che cede il passo alla star del folk Joan. Se non altro, a questo ruolo decisamente underwritten, poco approfondito, una brava Elle Fanning riesce comunque a dare corpo e sentimento. Comunque troppo poco, a mio avviso, per dare calore al film. Un film che alla fine, a differenza del suo protagonista, non azzarda, non osa, e rimane prigioniero dell’ortodossia del biopic come Pete Seeger dell’ortodossia folk. Ma d’altronde...

 Ah, my friends from the prison, they ask unto me

"How good, how good does it feel to be free?" 
And I answer them most mysteriously 
"Are birds free from the chains of the skyway?"
 
“Sono forse liberi gli uccelli dalle catene del cielo?”
 
(Ballad in Plain D, 1964)
 

Per approfondire:

su Pete Seeger: https://archivio.giornalettismo.com/pete-seeger-morto-pete-seeger/

su Suze Rotolo: https://www.marieclaire.it/attualita/gossip/a63428286/bob-dylan-suze-rotolo-storia-film/

https://www.indie-eye.it/recensore/letture/libri/sulla-strada-di-bob-dylan-memorie-dal-greenwich-village-di-suze-rotolo-la-recensione.html

Diamonds and Rust, la canzone di Joan Baez dedicata a Bob Dylan: https://www.youtube.com/watch?v=1ST9TZBb9v8

No Direction Home (2005), il documentario di Martin Scorsese su Bob Dylan è (per ora) visibile qui:

https://archive.org/details/no-direction-home-bob-dylan-2005-pt-2/No+Direction+Home+-+Bob+Dylan+(2005)+-+pt1.avi

Nessun commento: