giovedì 15 luglio 2021

L'INCORAGGIAMENTO E' IMPORTANTE... O FORSE NO.

Nel 1990 stavo lavorando alacremente a Nathan Never con Serra e Vigna. Dovevamo avere una buona scorta di storie al momento dell'uscita, fissata per l'estate del 1991. Nel frattempo, però,  continuavo a scrivere da solo sceneggiature per Nick Raider.

La sceneggiatura intitolata Saigon era la quarta che scrivevo per la serie creata da Claudio Nizzi. D'accordo col supervisore Renato Queirolo, avevo forzato un po' la cronologia del personaggio. Gli avevo inventato un passato militare che comprendeva un'esperienza, anche se breve, nel Vietnam. 

 

La prima versione del soggetto era zeppa di ingenuità, che Queirolo mi additò subito. Mi disse: "Dovresti leggere qualche libro serio sul Vietnam, e non basarti su Apocalypse Now e Il cacciatore". Mi sciroppai un'intera enciclopedia a dispense appena uscita (il titolo, se non ricordo male, era Nam o The Nam) , riscrissi da capo il soggetto, che fu approvato, e poi realizzai la sceneggiatura. 

Queirolo mi fece cambiare solo il finale, che nella prima versione era piuttosto splatter, e di tutto il resto toccò poco o nulla. 

Non avevo ancora trent'anni, ed ero orgoglioso del lavoro fatto. Prima di allora non mi ero mai documentato tanto per scrivere una storia. E se un supervisore esigente (eufemismo) come Renato Queirolo era soddisfatto, potevo a buon diritto esserne soddisfatto anch'io.

La storia uscì sul numero 33 della serie, nel mese di febbraio 1991.

Mesi dopo la pubblicazione, in uno dei miei periodici viaggi a Milano, una redattrice mi consegnò una lettera. Era indirizzata proprio a me, c/o Sergio Bonelli Editore. Una lettera per me? Solo per me? Non per Medda, Serra e Vigna? Un lettore mi scriveva? Ero incredulo. Ma, se si era preso il disturbo di scrivere, sicuramente voleva dirmi quanto aveva apprezzato una delle mie storie... 


La busta non indicava alcun mittente e io, che bruciavo dalla curiosità, la aprii all'istante. Ecco che cosa conteneva. 

 

Ci rimasi male? Sul momento sì. La cosa ebbe altri effetti su di me? No. Per quanto fossi giovane e professionalmente acerbo, sapevo che negli anni a venire avrei letto critiche di ogni tipo al mio lavoro. E il fatto che alcune fossero argomentate (almeno formalmente) e travestite da "recensione" non le avrebbe rese meno immotivate, stupide, prevenute, assurde. 

Ma tutto questo non ha la minima importanza. Il lettore può dire quello che vuole. E anche il recensore, ci mancherebbe. Ho cominciato a pubblicare nel 1988, più di trent’anni fa. In tutto questo tempo non ho mai replicato a un recensore per dirgli "Guarda, non hai capito, lascia che ti spieghi". 

D’altro canto, mi mettono tristezza quelli che postano il link alla recensione positiva, e ancora di più quelli che ringraziano il recensore. Una recensione positiva non renderà buono il vostro lavoro, se non lo è.  E se lo è, una recensione negativa non lo renderà pessimo.

Penso che in qualsiasi campo artistico autori e critici debbano viaggiare su rette parallele e non incrociarsi mai. Per questo il dibattito sulla critica fumettistica non mi ha mai appassionato. Sì, sarebbe un mondo più giusto quello in cui il fumetto definito “popolare” fosse analizzato con la stessa attenzione dedicata alle cosiddette graphic-novel. Ma non ci perdo il sonno. Sono ben altre le ingiustizie che mi preoccupano, da qualche anno a questa parte.

Se c'è un solo suggerimento che dopo trenta e più anni di attività di scrittore  posso dare a un giovane  scrittore è questo: quando ti siedi a scrivere, non c’è nessuno tra te e la pagina bianca. Quello spazio è tuo, nessuno può invaderlo. Nessuno può turbare quel flusso invisibile che parte dal tuo cervello e prende forma sulla pagina.

Perciò, quando il lavoro sarà finito, sii il primo e unico giudice di te stesso. Giudica quello che hai scritto, non quello che ne scrivono gli altri.





sabato 19 giugno 2021

TRENT'ANNI DOPO


"Il futuro dell'avventura - l'avventura del futuro!" Con questa locandina, nel mese di giugno 1991, le edicole pubblicizzavano l’uscita di una nuova serie a fumetti, Nathan Never.

Ricordo perfettamente il momento. Camminavo per le strade di Cagliari, quando passando davanti a un’edicola buttai l’occhio sui fumetti esposti. E lo vidi. Agente Speciale Alfa. Il numero 1 di Nathan Never era lì sullo scaffale, tra Martin Mystère, Dylan Dog e tutti gli altri. E ricordo perfettamente anche ciò che provai: un tuffo al cuore e, un attimo dopo, un’ansia tremenda. Non era più un sogno che si agitava dentro le nostre teste, non era più la proiezione mentale di un futuro possibile. Adesso il campionato era cominciato, giocavamo in serie A, e l’arbitro aveva appena fischiato il calcio d’inizio.

Antonio Serra e io non avevamo ancora trent’anni, e Bepi Vigna appena qualcuno di più. Quando il progetto di Nathan Never fu approvato, il nostro trio lavorava per la casa editrice da pochi anni. Avevamo realizzato appena una manciata di sceneggiature per Dylan Dog, Martin Mystère e Nick Raider. A distanza di tanto tempo, mi chiedo perché Sergio Bonelli ci diede fiducia e ci permise di realizzare una serie tutta nostra. Gli eravamo simpatici? Gli facevamo tenerezza e voleva darci una chance come un buon papà? Oppure, col suo collaudato fiuto di editore, aveva capito che avevamo in mano le carte buone per una serie di successo?

Non ebbi mai il coraggio di chiederglielo, e oggi un po’ lo rimpiango. E poi, tutto sommato, mi rendo conto che il successo di Nathan fu anche il frutto di una irripetibile congiunzione astrale. Arrivammo al momento giusto: il successo di Dylan Dog era ormai conclamato e contribuiva a rendere cool  il medium fumetto, portandolo sotto i riflettori dei mass media. E contemporaneamente si affacciava alla ribalta professionale una nuova generazione di disegnatori, che interpretavano la lezione del fumetto italiano classico con un dinamismo “americano”. Noi avevamo dalla nostra l’entusiasmo della gioventù e, lasciatemelo dire, la capacità per sfruttarlo al meglio. Non stavamo cercando di rivoluzionare il fumetto mondiale. Semplicemente, volevamo fare una cosa che ci piaceva. E ci riuscimmo, ripagando la fiducia dell’editore.

Il successo di Nathan Never è stato decisamente popolare, in ogni senso. La nostra serie non è mai stata una serie coccolata dalla critica, non ha vinto una ricca messe di riconoscimenti alle varie manifestazioni fumettistiche, ma è stata premiata dall’affetto di un pubblico entusiasta e, per molti anni, numerosissimo.

Certo, in quel fatidico giugno 1991, eravamo ben lontani da immaginare tutto questo. Il futuro – quello di Nathan e il nostro - era ancora tutto da scrivere.

Oggi molti lettori ricordano ancora certe storie di Nathan Never legate a un particolare momento della loro vita: la prima ragazza, le vacanze al mare, un trasloco, e poi la nascita del primo figlio, perché dobbiamo imparare a “essere padri prima che vendicatori”. Nathan è stato un compagno di viaggio per loro come per noi, e da scrittore non posso pretendere una gratificazione migliore. 

 Tavola di Nicola Mari da Nathan Never n. 19, 
L'undicesimo comandamento

Non saprei cos’altro aggiungere. Anche se trent’anni sono un bel pezzo di vita, e di cose da dire ce ne sarebbero tante. Ma, come dicevano nel film di un altro trio, “Non ce la faccio... troppi ricordi”.

Ci vediamo in edicola col numero 361 di Nathan Never, L’ultimo volo, sceneggiato dal sottoscritto e magnificamente illustrato da Simona Denna. Copertina di Sergio Giardo.


 
Non ero in cerca di un aiuto speciale
non perseguivo grandi obiettivi 
avevo già raggiunto il traguardo
pensando soltanto a una serie di sogni.

Bob Dylan, Series of Dreams


Non voglio essere una vignetta 
in un cimitero di vignette.

Paul Simon, Call Me Al