sabato 19 giugno 2021

TRENT'ANNI DOPO


"Il futuro dell'avventura - l'avventura del futuro!" Con questa locandina, nel mese di giugno 1991, le edicole pubblicizzavano l’uscita di una nuova serie a fumetti, Nathan Never.

Ricordo perfettamente il momento. Camminavo per le strade di Cagliari, quando passando davanti a un’edicola buttai l’occhio sui fumetti esposti. E lo vidi. Agente Speciale Alfa. Il numero 1 di Nathan Never era lì sullo scaffale, tra Martin Mystère, Dylan Dog e tutti gli altri. E ricordo perfettamente anche ciò che provai: un tuffo al cuore e, un attimo dopo, un’ansia tremenda. Non era più un sogno che si agitava dentro le nostre teste, non era più la proiezione mentale di un futuro possibile. Adesso il campionato era cominciato, giocavamo in serie A, e l’arbitro aveva appena fischiato il calcio d’inizio.

Antonio Serra e io non avevamo ancora trent’anni, e Bepi Vigna appena qualcuno di più. Quando il progetto di Nathan Never fu approvato, il nostro trio lavorava per la casa editrice da pochi anni. Avevamo realizzato appena una manciata di sceneggiature per Dylan Dog, Martin Mystère e Nick Raider. A distanza di tanto tempo, mi chiedo perché Sergio Bonelli ci diede fiducia e ci permise di realizzare una serie tutta nostra. Gli eravamo simpatici? Gli facevamo tenerezza e voleva darci una chance come un buon papà? Oppure, col suo collaudato fiuto di editore, aveva capito che avevamo in mano le carte buone per una serie di successo?

Non ebbi mai il coraggio di chiederglielo, e oggi un po’ lo rimpiango. E poi, tutto sommato, mi rendo conto che il successo di Nathan fu anche il frutto di una irripetibile congiunzione astrale. Arrivammo al momento giusto: il successo di Dylan Dog era ormai conclamato e contribuiva a rendere cool  il medium fumetto, portandolo sotto i riflettori dei mass media. E contemporaneamente si affacciava alla ribalta professionale una nuova generazione di disegnatori, che interpretavano la lezione del fumetto italiano classico con un dinamismo “americano”. Noi avevamo dalla nostra l’entusiasmo della gioventù e, lasciatemelo dire, la capacità per sfruttarlo al meglio. Non stavamo cercando di rivoluzionare il fumetto mondiale. Semplicemente, volevamo fare una cosa che ci piaceva. E ci riuscimmo, ripagando la fiducia dell’editore.

Il successo di Nathan Never è stato decisamente popolare, in ogni senso. La nostra serie non è mai stata una serie coccolata dalla critica, non ha vinto una ricca messe di riconoscimenti alle varie manifestazioni fumettistiche, ma è stata premiata dall’affetto di un pubblico entusiasta e, per molti anni, numerosissimo.

Certo, in quel fatidico giugno 1991, eravamo ben lontani da immaginare tutto questo. Il futuro – quello di Nathan e il nostro - era ancora tutto da scrivere.

Oggi molti lettori ricordano ancora certe storie di Nathan Never legate a un particolare momento della loro vita: la prima ragazza, le vacanze al mare, un trasloco, e poi la nascita del primo figlio, perché dobbiamo imparare a “essere padri prima che vendicatori”. Nathan è stato un compagno di viaggio per loro come per noi, e da scrittore non posso pretendere una gratificazione migliore. 

 Tavola di Nicola Mari da Nathan Never n. 19, 
L'undicesimo comandamento

Non saprei cos’altro aggiungere. Anche se trent’anni sono un bel pezzo di vita, e di cose da dire ce ne sarebbero tante. Ma, come dicevano nel film di un altro trio, “Non ce la faccio... troppi ricordi”.

Ci vediamo in edicola col numero 361 di Nathan Never, L’ultimo volo, sceneggiato dal sottoscritto e magnificamente illustrato da Simona Denna. Copertina di Sergio Giardo.


 
Non ero in cerca di un aiuto speciale
non perseguivo grandi obiettivi 
avevo già raggiunto il traguardo
pensando soltanto a una serie di sogni.

Bob Dylan, Series of Dreams


Non voglio essere una vignetta 
in un cimitero di vignette.

Paul Simon, Call Me Al


martedì 11 maggio 2021

L'ASSASSINIO DI SISTER GEORGE

        locandina originale (dal sito benitomovieposter.com)

Londra, anni sessanta: June Buckridge è una matura attrice, famosa per il personaggio della simpatica infermiera Sister George in una soap opera di grande successo. Ma l’esuberanza dell’attrice e la sua propensione ad alzare il gomito le hanno inimicato il network, che si prepara a silurarla facendo morire il suo personaggio. La situazione compromette non solo la carriera di June, ma anche il suo rapporto con la sua giovane amante, Alice.

June reagisce nel modo peggiore possibile, manifestando la sua ostilità a missis Croft, l'unica dirigente del network che sembra propensa ad aiutarla. E la situazione precipita quando missis Croft posa gli occhi su Alice…

Nel 1968, dopo il grande successo di una storia tipicamente virile come Quella sporca dozzina, il regista Robert Aldrich torna a esplorare il lato oscuro della femminilità, come aveva già fatto con il dittico Che fine ha fatto Baby Jane? e Piano… piano, dolce Carlotta. Lo fa con un altro dittico, Quando muore una stella e L’assassinio di Sister George: i due film escono a un mese di distanza l’uno dall’altro. E se il primo non ha successo, il secondo ha un esito catastrofico al botteghino. Prevedibilmente, possiamo dire col senno di poi. 

The Killing of Sister George era una pièce teatrale di Frank Marcus. Aldrich la fece adattare dal suo sceneggiatore di fiducia, Lukas Heller, tenne l’interprete teatrale (una travolgente Beryl Reid), affidò la parte della giovane amante a Susannah York e quella della seduttrice Mercy Croft alla matura Coral Browne. Impossibile che il regista non si rendesse conto che il materiale scottava: la figura di June alias “George” è quella di una butch, una lesbica mascolina, che oltretutto qui non si fa scrupolo di ubriacarsi, sollevare le vesti a due suorine e fare battutacce sconce. Al contrario, la giovane amante Alice è infantile (June la chiama Childie, bambina, perché colleziona bambole), ed è ingenua, ma anche manipolatrice. Le due sono legate da una relazione impari, in cui June domina e Alice è sottomessa. Con l’entrata in scena di missis Croft il rapporto tra le due amanti si incrina. La Croft (interpretata da Coral Browne) sembra a prima vista il personaggio più razionale (nonché eterosessuale). Ma è lei, molto più scafata nel gioco della finzione e delle apparenze, ad avere la meglio sulla naiveté ostentata di June e su quella più ambigua di Alice, arrivando a sedurre quest’ultima.

Aldrich si propone il massimo realismo, al punto di girare una lunga sequenza in un vero locale di lesbiche, il Gateways Club su Kings Road. E, soprattutto, insiste nel mettere in scena la seduzione di Alice (assente nella versione teatrale). E sarà proprio questa scena, peraltro assai sofferta dalla York, ad affondare il film ai botteghini. Renata Adler scrive nella recensione per il New York Times che la Browne tasta il seno della York “con l’interesse di un ittiologo per uno strano pesce arenato sulla spiaggia”. La scena è assai esplicita e non esattamente solleticante, anche per la musica, degna di un film dell'orrore. Ma in diversi stati degli USA venne comunque tagliata, per violazione delle leggi sull'oscenità. La censura etichettò il film con il grado “X”, lo stesso dei porno. Aldrich si dichiarò pronto a eliminare completamente la scena pur di tenere il film sugli schermi, ma troppo tardi. A quanto sembrava, il problema era alla radice, nel soggetto. E la pellicola scomparve dai cinema nel giro di pochi giorni.

 

Val la pena di rilevare che il film non si esaurisce comunque nella tematica della love story omosessuale: Aldrich è uno dei primi registi a mettere alla berlina le ipocrisie della fiction televisiva, dimostrando di conoscerne i meccanismi che agiscono dietro le quinte: il siluramento di June dalla soap opera è prima accennato, poi minacciato, poi apparentemente ritirato, in uno stillicidio logorante. E l’abbrutimento grottesco mostrato nel finale è la logica conseguenza dell’”assassinio” – alla fine neanche troppo metaforico – citato nel titolo.

Dal punto di vista registico, qui lo stile di Aldrich è ancora più essenziale, “regia invisibile” alla maniera dei classici (Aldrich lo definì successivamente “la miglior regia che abbia mai fatto”). Ma aldilà di tutto questo è June/George il centro del film. Beryl Reid dà vita al personaggio con impressionante aderenza (il ruolo teatrale le era valso un Tony Award, e quello del film una nomination al Golden Globe), e alcune sequenze, come quella di June e Alice vestite da Stanlio e Ollio, sono quasi toccanti, in bilico tra ironia e tenerezza.

Se il film è stato un disastro al botteghino, nel corso del tempo non è stato dimenticato. Puntualmente recuperato nel corso degli anni in varie rassegne di “cinema sommerso” omosessuale, L’assassinio di Sister George è approdato anche su DVD. L’edizione della 01 Home Entertainment lo presenta nella sua versione originale di 133 minuti (quella uscita nei cinema italiani ne durava 112).