domenica 3 gennaio 2021

DECIO CANZIO, IL MIO DIRETTORE

Al di fuori di pochi appassionati di fumetti, il suo nome non è noto. Eppure era un nome importante, che suonava come quello di un antico romano. Dopotutto, era discendente di quello Stefano Canzio che sposò Teresita Garibaldi, figlia del generale. Decio Canzio è stato per circa quarant’anni il più stretto collaboratore di Sergio Bonelli, e per più di trenta direttore generale della casa editrice. È stato quindi anche il mio direttore, fino al momento della sua pensione.

Era un omone imponente, sornione e un po’ burbero, di una compostezza tipicamente milanese. Non amava apparire (ci sono pochissime sue fotografie in giro), e limitava le apparizioni pubbliche agli obblighi di rappresentanza della casa editrice. Raramente alzava la voce. Perché non ne aveva bisogno per essere autorevole e, all’occorrenza, anche tagliente.

Era una persona coltissima. Come diceva Antonio Serra: “Se due enciclopedie riportano una data per un certo evento, Decio ne ha sicuramente un’altra che riporta un’altra data, ed è quella esatta.” Ma non sarebbe diventato il più stretto collaboratore di Sergio Bonelli se non fosse stato un formidabile narratore e editor. 

 
Copertina de "L'uomo del Nilo", scritto da Decio Canzio per i disegni di Sergio Toppi

Dopo avere scritto quasi seimila pagine per la serie Il piccolo ranger negli anni settanta e alcune sceneggiature per la serie Un uomo un’avventura, a partire dagli anni ottanta ricoprì il ruolo di direttore generale della casa editrice. Di fatto, a parte le incombenze “di rappresentanza” in quanto numero due della Sergio Bonelli Editore, svolse il ruolo di super-supervisore: leggeva (e, se era il caso, correggeva) praticamente ogni pagina che uscisse dalla casa editrice per andare in stampa. Dunque, anche quelle che scrivevo io.

Ero uno sceneggiatore giovane, nemmeno trentenne, quando lo incontrai per la prima volta e lo vidi dietro la sua scrivania, una sorta di monumentale Nero Wolfe del fumetto. Non era facile non averne soggezione. E infatti io ne avevo. Praticamente come Fracchia davanti al capufficio, il cav. Dott. Ulisse Acetti. Ci volle qualche anno perché quella soggezione diventasse stima.

Una volta mi lamentai con Antonio Serra della quantità di correzioni di Canzio sui testi di una mia storia di Nathan Never. Dissi ad Antonio che se Canzio avesse dovuto applicare lo stesso metro alla storia X dello sceneggiatore Y, uscita in edicola un mese prima, neanche una pagina si sarebbe salvata. 

 

Il legionario Antonio (Serra) a rapporto dal console Decio.

“Non hai capito – disse Antonio – Decio ti corregge perché ti stima.”

“Cioè, mi stai dicendo che mi corregge ogni balloon di dialoghi che andavano bene comunque, però ha una buona opinione di me?”

“Certo. Se ti corregge, vuol dire che ti legge con interesse e vuole che la tua storia venga fuori al meglio.”

“E la storia di Y, allora?”

“Y non gli piace. Si annoia a leggere le sue cose, e quindi corregge solo gli svarioni veri e propri”.

Alla fine capii che era vero. Così come mi fu chiaro che alcuni suoi interventi erano “di default” per far rientrare noi scavezzacolli nei paletti della “bonellità” (e anche, diciamola tutta, per assecondare certe fisime dell’editore). Ma capii che la sua revisione era tesa a far sì che le storie filassero, che non ci fossero sviste o contraddizioni, e soprattutto che ogni singola vignetta fosse immediatamente comprensibile nel testo e nei disegni. “Non dobbiamo generare confusione nel lettore”. Anche il meno sveglio dei lettori doveva leggere la storia d’un fiato, senza tornare indietro a rileggere per capire un passaggio farraginoso.

Imparai presto la ratio dietro alle sue correzioni, e imparai a limare i miei dialoghi, che in effetti a volte erano eccessivamente lunghi, o con battute troppo arzigogolate per risultare efficaci. Imparai anche a dirgli che a volte non ero d’accordo con i suoi interventi. Al che lui rispondeva sornione: “Ne prendo atto, Medda”. Burbero, sì, ma quando uscì una mia storia di Tex con alcune modifiche (ai miei occhi comprensibilissime), mi scrisse una lettera per spiegarmi nel dettaglio perché erano state fatte. Una lunga spiegazione che non era assolutamente tenuto a darmi.

A un certo punto smise di chiamarmi per cognome, e cominciò a chiamarmi per nome. Il rito della visita nel suo ufficio, che agli esordi sembrava il rapporto al colonnello da parte del giovane sottufficiale appena uscito dall’accademia, diventò una chiacchierata sul più e sul meno. Parlavamo di cinema. Mi chiedeva della Sardegna, e mi raccontava di quando c’era stato da giovane, in posti davvero incontaminati. Mi disse che agognava una vacanza in un posto remoto, dove potesse guardare fino all’orizzonte senza trovare tracce di presenza umana, neanche i pali dell’elettricità. E una volta – con mio assoluto stupore – mi disse che si era commosso fino alle lacrime guardando il film Fluke, la storia fiabesca di un cane che scopre di essere la reincarnazione di un uomo.

Paradossalmente, quando mi trasferii a Milano non ebbi modo di vederlo spesso come quando venivo in città dalla Sardegna. Il lavoro di supervisione delle serie, vista la quantità, era stato distribuito tra vari redattori. Canzio si era tenuto per sé solo la supervisione delle ristampe di Tex.

L’ultima volta che ebbi modo di scambiare qualche parola con lui fu durante la riunione per l’approvazione di Caravan, a cui lui presenziò per pochi minuti. Prima di andare via mi prese da parte e mi disse che apprezzava il mio tentativo di fare una serie diversa, ma che il pubblico non lo avrebbe capito. Non lo disse con tono di rimprovero, però. Sembrava piuttosto un padre preoccupato che il figlio si cacciasse nei guai.

Pochi anni dopo ebbe problemi di salute. L’età avanzava, d’altronde, ed era tempo di andare in pensione. Si mormorava che in redazione gli avessero preparato un party di congedo per l’ultimo giorno di lavoro. La cosa probabilmente gli arrivò alle orecchie: così il giorno fatidico telefonò in ufficio per dire che non stava bene, che sarebbe rimasto a casa, e tanti cari saluti a tutti. Probabilmente si immaginava un party con le trombette, i cappellini colorati, il discorso di commiato condito di retorica di circostanza, e forse anche qualche lacrimuccia delle segretarie. Troppo, per uno che aveva fatto della discrezione uno stile di vita.

Se ne andò il 4 gennaio 2013, testardamente coerente fino all’ultimo, anzi, fino alle ultime volontà: nessuna messa e nessun funerale. Perfino quello sarebbe stato un evento troppo mondano per lui. 

 

Come dicevo, non circolano molte foto di Canzio, e per la maggior parte risalgono ai suoi ultimi anni in casa editrice, quando già la salute vacillava. Mi piace ricordarlo sorridente con questa foto, scattata sicuramente a una delle edizioni di Inovafumetto, a Lugano. Dietro di lui ci sono Antonio Carboni, l’organizzatore dell’evento, e Sergio Bonelli. La foto l’ho presa dal blog di Moreno Burattini, che contiene anche un articolo sulla produzione fumettistica di Decio Canzio.

domenica 27 dicembre 2020

I BANDITI DI JAN

 

C’è una serie belga, su Netflix, che è passata piuttosto inosservata. Ed è un peccato, perché merita una visione per molti motivi. Prima di tutto, un’ambientazione storica e geografica non proprio battutissima dalle fiction, cioè le Fiandre nella prima metà del Settecento. Secondo, una trama che, pur con momenti di suspense e violenza, spoglia il racconto da ogni enfasi epica e lo restituisce alla dimensione tragica della Storia.

“I banditi di Jan” (De bende van Jan de Lichte in originale, Thieves of the Wood in inglese) racconta, con le ovvie licenze narrative, la storia vera di Jan De Lichte, capo di una banda di reietti, costretti a vivere di rapine nei boschi intorno alla cittadina di Aalst.

Tutto comincia con l’arrivo ad Aalst, più o meno contemporaneo, di Jan (disertore dell’esercito e ricercato per omicidio) e del nuovo balivo, Baru, che svolge il ruolo di capo della polizia. Baru è un funzionario integerrimo, ma si trova costretto ad assecondare lo spietato e vizioso borgomastro Coffijn, che governa Aalst col pugno di ferro.

Jan si unisce a una banda di reietti accampati nel bosco, che sopravvive come può con i proventi di rapine e di prostituzione. E che si deve guardare nello stesso tempo dagli sgherri di Coffijn e da una banda di altri disperati, guidati dal vecchio bandito Izjeren Simon. Il ritorno di Jan ridà speranza alla comunità, ma allo stesso tempo mette in crisi la leadership del suo vecchio amico Tincke, più propenso a fare affari per sé che per il gruppo. E questo avvia una catena di eventi inarrestabile... 

 


Su una struttura di racconto avventuroso molto classica, “alla Robin Hood”, una storia di oppressi che si ribellano agli oppressori, si snoda un racconto corale che di tradizionalmente epico ha ben poco: un impressionante lavoro di ricostruzione storica di ambienti e costumi ci restituisce un Settecento degradato materialmente e moralmente. Su questo sfondo si muovono personaggi tragici, in lotta contro un destino inesorabile, in un mondo in cui l’unico progresso sembra essere solo la scoperta di nuove modalità di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

La serie è interamente prodotta in Belgio, e in originale è recitata in olandese. Gli attori, tutti belgi, per noi sono sconosciuti, ma piuttosto convincenti (a parte forse la curiosa scelta di Anne-Laure Vandeputte che, pur brava, dall’alto del suo metro e ottantuno non sembra esattamente una fragile orfanella). 

 

Insomma, storia intrigante, “production value” eccellente, attori in palla. Tutto perfetto? Non proprio. Si chiude serenamente un occhio su soluzioni poco realistiche (Jan trascinato dal cavallo si rialza praticamente illeso!), ma ci sono veri e propri vicoli ciechi narrativi che non aggiungono niente al plot (l’accoltellamento di “Stivale” e il subplot dell’esorcismo) e allungano il brodo, mentre per converso ci sono diverse ellissi sull’azione, che scartano un po’ snobisticamente i momenti più spettacolari. Eppure non si può non restare affascinati da questo affresco crudele, sicuramente una delle migliori produzioni europee di Netflix. Rimane inappagata, purtroppo, la curiosità di leggere il romanzo originale di Louis Paul Boon, mai tradotto fuori dell’Olanda.