martedì 9 agosto 2022

LA CROCE DI FERRO

 


1943, fronte russo, penisola di Taman: le truppe della Wehrmacht si ritirano. Il sergente Steiner (James Coburn) riesce a riportare indietro il suo plotone dopo un’incursione dietro le linee nemiche. Il colonnello Brandt (James Mason) sa che può contare su Steiner perché la ritirata non si trasformi in una fuga disastrosa, ma l’arrivo dell’ambizioso capitano Stransky (Maximilian Schell) complica le cose. Stransky infatti vuole guadagnarsi a ogni costo la Croce di Ferro con una vittoria. E Steiner e i suoi – che aspirano semplicemente a salvare la pelle – per lui sono un ostacolo...

Con La croce di ferro Sam Peckinpah (insieme agli sceneggiatori Kelley e Hamilton) riscrive a modo suo il film di guerra, partendo dal romanzo di Willi Heinrich La carne paziente. E lo fa fin dai titoli di testa, alternando immagini tratte da cinegiornali ad altre scattate su vari fronti al suono di Hanschen Klein, una canzoncina per bambini: il piccolo Hans va via di casa da piccolo e torna uomo, così cambiato che solo sua madre può riconoscerlo.

La rappresentazione del caos della guerra offerta da Peckinpah risulta ben diversa da quella del coevo Quell’ultimo ponte, in quanto priva di qualsiasi intento moraleggiante. E non solo perché i suoi protagonisti combattono dalla parte sbagliata della storia, quella nazista, ma perché è impossibile rivestire di un senso il massacro in cui essi alternano il ruolo di carnefici a quello di vittime. La guerra non è l’avanzata vittoriosa presentata dai cinegiornali di propaganda: è un inferno di esplosioni, schianti, boati e corpi che saltano via in pezzi nel fango e nella neve. 

 

A corto di viveri e di equipaggiamento, in lotta con le pulci e con la dissenteria non meno che col nemico russo, la carne dei soldati è “paziente”, nel senso che sopporta ogni cosa in attesa che si compia il proprio destino. Perso ogni riferimento morale e sociale, non resta che ridefinire personalmente poche e fragili coordinate etiche: salvare la vita – trasgredendo gli ordini ricevuti – a un ragazzino russo, placare il compagno in preda a una crisi di nervi, consegnare uno stupratore alla meritata punizione. Non si può fare molto di più: questo “mucchio selvaggio” non ha alcuna possibilità di riscatto collettivo, e la sorte migliore a cui possa aspirare è incassare la sconfitta definitiva in patria, e non tra i boschi innevati dall’inverno russo. 

Quella del gruppo è l’unica coesione possibile in un universo disintegrato: quando il colonnello Brandt chiede a Steiner di sbugiardare il pavido Stransky, che asserisce di avere guidato il contrattacco, Steiner non parla. E a Brandt, che sa la verità e non capisce il suo silenzio, risponde “Io odio tutti gli ufficiali”. Steiner sente di non dovere nessuna fedeltà agli ufficiali e alla classe che essi rappresentano (che sia costituita da nazisti è incidentale), e non combatte per nessuna causa che non sia la sopravvivenza. L’unico dovere che sente è quello nei confronti dei suoi uomini. Che infatti non abbandona al loro destino, anche quando potrebbe restare nell’ospedale dove sta guarendo dalle ferite, confortato dalla bella infermiera Eva. Come Dutch ricorda a Pike nel Mucchio Selvaggio: “Non è la tua parola che conta, conta a chi l’hai data”. Il plotone è partito unito e unito tornerà, sia pure per finire con l’affrontare, a pochi passi dalla salvezza, il “fuoco amico” delle proprie trincee. 

Se è scontato che in questa apocalisse non ci sia spazio per il sentimentalismo, resta poco spazio anche per i sentimenti. E anzi, proprio quando la sceneggiatura tenta qualche affondo “psicologico” (come quando Steiner/Coburn dice al ragazzino russo “Non ti posso tenere qui: tu mi fai pensare, e fai pensare gli altri. E qui non dobbiamo pensare”), l’impianto realistico scricchiola, o è infranto volutamente dallo stesso regista nella scena allucinata e grottesca di Steiner ricoverato all’ospedale militare.

Pellicola dalla lavorazione infelice, minata dall’inesperienza del produttore e dalle intemperanze dello stesso regista, La croce di ferro non arriva ai vertici del capolavoro. Eppure è difficile trovare, nella sterminata filmografia del genere bellico, una rappresentazione così spietatamente sincera del caos della guerra. Che è poi il caos irredimibile della società che l’ha voluta.

 

LA STORIA DEL FILM

Nel 1975 Sam Peckinpah è riuscito a terminare Killer Elite, uno dei suoi film meno memorabili (che pure si difende bene al botteghino), quando gli viene proposto il progetto della Croce di ferro, tratto dal romanzo La carne paziente, di Willi Heinrich: è la storia di un plotone tedesco che cerca di sopravvivere alla disastrosa ritirata della Wehrmacht dalla Russia. La prima sceneggiatura è firmata da Julius Epstein, ed è un monumento di 160 pagine. Peckinpah, poco convinto, la passa prima a Walt Kelley, e poi all’ex marine Jim Hamilton. Hamilton la definisce “a disjointed piece of work”, ma non c’è tempo per una riscrittura totale, e in un mese fa quello che può per risistemare lo script. È solo il primo dei problemi che funesteranno la lavorazione del film. Peckinpah, che ci dà dentro con alcol e cocaina, arriva subito ai ferri corti col produttore, Wolf Hartwig. 

Hartwig non è proprio un esperto di cinema mainstream: le sue ultime pellicole si intitolano Adolescenza porno, Schiave nell’isola del piacere, Le svedesi lo vogliono così. Insomma, è un piccolo produttore specializzato in film erotici soft-core. Vero è che è un mercante abilissimo, e i nomi del regista e di altri attori coinvolti (James Coburn, James Mason, Maximilan Schell) riescono a fargli avere anticipi dai distributori. Ma il film è impegnativo, il budget richiesto non è indifferente, e a poco serve tagliare i costi girando in Jugoslavia e trascurare “trucco e parrucco” (col risultato di esibire sullo schermo i soldati nazisti più improbabili della storia del cinema). I soldi del primo anticipo finiscono in fretta. E da questo momento comincia un estenuante tira e molla tra produttore e regista. Attori e tecnici vengono retribuiti col contagocce, e devono aspettare la paga anche per intere settimane. Peckinpah arriva al punto di finanziare le riprese di tasca sua pur di non fermare la lavorazione del film. Alla fine ci rimetterà 90.000 dollari. Volenteroso ma inesperto, Hartwig non ha idea di che cosa comporti girare un film di guerra: promette dieci carri armati russi al regista, poi lo implora di accontentarsi di quattro. Alla fine gliene procurerà due... di cui uno non cammina. (Se volete verificare coi vostri occhi, guardate il film con attenzione: salvo una scena di pochi secondi, non ci sono mai due carri in movimento nella stessa inquadratura. Ce n’è sempre uno solo). 

Gli scontri tra il regista e il produttore, di persona o al telefono o per lettera, sono quotidiani. E Peckinpah intanto combatte i suoi demoni personali: in Jugoslavia è impossibile procurarsi cocaina, così il regista compensa la mancanza di droga e dei suoi farmaci, sequestrati alla frontiera, aumentando le dosi di alcol. Finisce per litigare violentemente con sua figlia Sharon, che stava girando un documentario sulle riprese del film. Il risultato è che lei fa le valigie. Anche Frank Kowalski, amico del regista e sceneggiatore di Voglio la testa di Garcia,lo pianta in asso esasperato. La lavorazione del film diventa un incubo, tra l’oggettiva difficoltà di un progetto che prevede complesse scene di battaglia , i ritardi delle paghe e la salute del regista che peggiora sempre più: una infezione alla gamba gli rende impossibile stare in piedi. Lo devono muovere su e giù per il set nel side-car di una moto.

La post-produzione non è meno complicata, anche perché le condizioni di Peckinpah peggiorano visibilmente. A Londra, dove sta lavorando al montaggio, collassa per la terza volta in poche ore mentre attraversa la strada per tornare in albergo. Con lui c’è James Coburn, che gli dà l’ultimatum: “Sam, questa volta non ti aiuto. Ti alzi da solo, domani vieni da me e chiamiamo qualcuno in grado di aiutarti”. Il giorno dopo, Peckinpah bussa alla porta di Coburn. “Sei arrivato quasi troppo tardi”, dice il medico che lo prende in cura. “Sono convinto che (quel medico, ndr) gli abbia allungato la vita di almeno sei anni”, dirà più tardi Coburn. 

Quanto a La croce di ferro, non sarà apprezzato dal pubblico americano, ma si rifarà in Europa, fruttando al regista buoni incassi, buone recensioni e un telegramma di complimenti di Orson Welles. Peckinpah vivrà altri sette turbinosi anni, riuscendo a dirigere solo altri due film, Convoy e Osterman Weekend. Nessuno dei due, a dispetto del buon esito al botteghino, è all’altezza della sua fama. Il suo fisico minato dagli eccessi cede nel 1984. Wolf Hartwig, il produttore, negli anni successivi non produrrà nessun film neanche lontanamente paragonabile a La croce di ferro. Ritiratosi nel 1985, morirà nel 2017, alla bella età di 98 anni. 

  Sam Peckinpah (foto tratta da cinephiliabeyond.org)         

venerdì 10 giugno 2022

RED ROCKET - un racconto

In mezzo al materiale tolto dal mio vecchio sito c'era una manciata di racconti, scritti in occasioni diverse e molto distanziate nel tempo. Pochi lo sanno, ma il primo lavoro pubblicato con la mia firma, nel lontano 1985, non era la sceneggiatura di un fumetto. Era un racconto, che uscì sull'edizione italiana della rivista Creepy. La prima sceneggiatura da me firmata (insieme a Serra e Vigna) per una storia a fumetti uscì solo tre anni dopo, nel 1988. Era La donna immortale, albo n. 79 della serie Martin Mystère. Nel 1991 sarebbe arrivato Nathan Never. E il resto, come si dice, è storia nota.

Da allora sono tornato al racconto pochissime volte. Una fu nel 2008. All’epoca, sulle corse più affollate della metropolitana milanese era frequente imbattersi in ragazzini Rom che chiedevano l’elemosina. Il fenomeno arrivò ben presto all’attenzione dei media. Spuntarono anche video che mostravano zingarelli alla Stazione Centrale, impegnati non nella questua, ma a mettere le mani nei bagagli di passeggeri distratti. Un cronista volenteroso avrebbe trovato materiale per un’inchiesta. Io non ero un cronista, e scrissi un racconto.
 
RED ROCKET 

In coda per salire sul Red Rocket, Bebe osserva i vagoncini a forma di razzo sfrecciare sulla rotaia che sovrasta un’ampia area del luna-park. Li segue con lo sguardo finché non escono dal suo campo visivo e poi ne sente solo il rumore mentre salgono, si avvitano e ricadono, e i ragazzi aggrappati ai sedili gridano in un misto di eccitazione e spavento. Bebe conta le teste davanti a lui nella fila, cerca di calcolare quanto ci vorrà prima che arrivi il suo turno. E’ sabato e c’è molta gente. Sarebbe dovuto venire a metà settimana, magari di mercoledì, c’è meno gente nei giorni feriali. Ma durante la settimana Bebe non ha avuto molta fortuna. La fortuna sembrava essere arrivata solo di venerdì, appena il giorno prima.

La corriera fermò alle otto in punto in piazza Stazione, e Bebe scese fischiettando. Con il giubbotto sportivo, i jeans e le scarpe da jogging di marca sembrava un ragazzino come tanti. Razvan lo raccomandava sempre: “Non vestitevi come straccioni, altrimenti i poliziotti vi puntano subito”. In segno di sfida Bebe passò davanti a due poliziotti fermi davanti all’edicola. Stavano chiacchierando con l’edicolante. Bebe non capiva ancora bene l’italiano, ma sentì “rigore”, “pareggio”, “campionato”, e intuì che parlavano di calcio. Non lo degnarono di un’occhiata.

“Dovete camminare veloci, fate sembrare che sapete dove state andando”, diceva Razvan. Bebe affrettò il passo ed entrò nella stazione. I momenti migliori erano alla partenza e all’arrivo di un treno. Perché, spiegava Razvan, quando uno sale sul treno sta pensando solo a salire. Quando uno scende dal treno pensa solo che finalmente è arrivato, dato che questi stupidi treni italiani arrivano sempre in ritardo. Il che significa che tu puoi avvicinarti da dietro al pollo, poi allunghi una mano, tiri piano piano la cerniera dello zaino, e senza che quello se ne accorga gli sfili il cellulare. O la macchina fotografica. O il portafogli (c’è sempre qualche pollo che mette il portafogli nello zaino, e uno così, nella classifica della pollitudine, è secondo solo al pollo che lo tiene nella tasca posteriore dei jeans).

Bebe cominciò a guardarsi attorno, studiando il viavai dei viaggiatori. Si sentiva calmo e sicuro di sé. Sorrise ripensando ai suoi primi giorni alla stazione, e al batticuore che lo assaliva ogni volta.

Nelle prime settimane Razvan lo aveva messo a lavorare con Daniel e Catalin, due cugini che avevano quattordici anni, tre più di lui. Catalin, che parlava un po’ di italiano, fermava il pollo e gli chiedeva indicazioni su come raggiungere un posto, quale autobus prendere, cose così. Daniel allora passava alle spalle del pollo e gli lavorava il trolley, e Bebe faceva da palo. In seguito Bebe e Daniel si erano scambiati il ruolo, come due calciatori che si alternano sulla fascia laterale. Catalin, che era l’anziano del gruppo (tre mesi più di Daniel), si vantava di avere un occhio infallibile per i polli. Ma una volta una vecchietta che dimostrava almeno ottant’anni si era accorta che Bebe le stava ravanando nel trolley, e li aveva menati con l’ombrello, con una furia tale che per poco Catalin non ci rimetteva uno dei suoi occhi infallibili. Un’altra volta il palo Daniel, distratto dalla minigonna di una mora, non si era accorto di avere alle spalle due carabinieri. I quali invece non erano distratti affatto, e avevano costretto il trio a una fuga precipitosa.

Dopo un mese, Bebe si era stufato dell’andazzo ed era andato a parlare con Razvan. Daniel e Catalin non fanno mezzo cervello in due, gli aveva detto, e io voglio lavorare da solo. Razvan organizzava i ragazzini in squadre di due o tre elementi. Catalin, Daniel e Bebe gli portavano alla fine della giornata merce per un valore che andava dai trecento ai settecento euro. Ma se tu mi lasci fare da solo, disse Bebe, vedrai che di quei soldi te ne porto il doppio. Razvan gli aveva detto di sì.

Una volta a Bebe era andata male. Aveva scelto il pollo sbagliato, che si era rivelato un campione di atletica leggera. Aveva inseguito Bebe che scappava con il suo cellulare in mano, lo aveva raggiunto all’estremità di piazza Stazione, lo aveva bloccato e aveva chiamato la polizia. E prima che gli sbirri arrivassero si era tolto la soddisfazione di stampargli in faccia due ceffoni.

“Alla polizia non dovete dire niente - era l’ordine di Razvan - Né come vi chiamate né dove state, capito?” Per Bebe non era difficile. Tutto il suo italiano non arrivava a venti parole. Così, davanti al poliziotto che lo interrogava, fece il duro.

“Allora? Come ti chiami? IL - TUO - NO - ME!” sillabò il poliziotto.

“Sigaretta.” Rispose lui, portando due dita alla bocca. Aveva visto alla tv che quando i poliziotti ti interrogano puoi chiedere una sigaretta.

”Te la do io la sigaretta... ma tu guarda… ”

Bebe scrollò le spalle, cercando di ostentare una sicurezza che non provava. A sera arrivò Mircea. Mircea dichiarò ai poliziotti di essere lo zio di Bebe. Firmò delle carte e se lo portò via.

“Non ho detto niente” disse Bebe mentre salivano sul furgone.

Neanche Mircea disse niente. Bebe non riuscì a indovinare la piega della sua bocca sotto i baffoni grigi.

Al campo, Mircea lo aveva portato davanti a un grosso palo. “Abbraccialo”, gli aveva detto. Bebe non capiva. Mircea gli aveva dato un ceffone così forte che a momenti gli staccava la testa dal collo. Bebe aveva abbracciato il palo, e Mircea gli aveva bloccato i polsi con tre giri di nastro telato. Soltanto allora Bebe aveva capito. Mircea si era tolto la cinghia dai pantaloni e aveva detto soltanto: - Se gridi te le do più forte, hai capito? -

- Non è colpa mia se mi hanno preso -, supplicò Bebe.

- È colpa tua se Razvan ha perso una giornata di incassi.

Bebe non gridò sotto le cinghiate. Mugolò e si pisciò addosso come un cucciolo spaventato.

Rimase legato al palo tutta la notte. Bloccato com’era non poteva nemmeno stendersi, ma solo stare seduto. Il mattino dopo era semiassiderato e la schiena scorticata gli bruciava come se gliel’avessero sfregata contro una graticola. Il dolore lancinante gli provocava ondate di nausea. Mircea gli liberò le mani e disse: “Adesso vatti a lavare.” Bebe si accasciò. Non aveva la forza di fare un passo.

Qualcuno lo portò nella baracca che divideva con altri quattro ragazzi. Nessuno dei quattro era ancora rientrato. Disteso su un fianco sul materasso nudo, scosso dai brividi della febbre, Bebe sentiva che stava per morire, e non voleva morire solo come un cane. Ricordò le preghiere che gli aveva insegnato sua nonna. Pregò Gesù, San Giuseppe, la Vergine Maria e poi pregò l’angelo custode. E quando l’angelo arrivò e si chinò su di lui sfiorandogli il volto con una cascata di boccoli biondi, Bebe si spaventò e pensò che la sua ora fosse arrivata.

- Non voglio m-morire. - balbettò.

- Non morirai. - disse l’angelo, posando a terra una bacinella di plastica piena d’acqua.

- Ti hanno mandato a portarmi via? - disse Bebe, che non aveva mai visto un angelo che portava una bacinella. E tutto a un tratto gli sembrò improbabile che un angelo vestisse una felpa gialla con un disegno di Paperino.

- Mi hanno mandato a medicarti. - disse l’angelo estraendo un fazzolettino dai jeans, e poi aggiunse: - Mi chiamo Mirela.

La ragazzina bionda in coda davanti a Bebe si volta di scatto, come se avesse percepito gli occhi di lui sulla sua nuca. Bebe capisce che la stava fissando senza rendersene conto, e distoglie subito lo sguardo, riportandolo sul Red Rocket che ripassa sopra le loro teste col suo carico di viaggiatori eccitati. La ragazzina si volta di nuovo, tranquillizzata, e muove qualche passo avanti insieme ai suoi genitori: la coda si sta accorciando.

Mirela gli pulì le ferite sulla schiena, gliele cosparse con una polvere cicatrizzante, lo aiutò a indossare una felpa pulita e si voltò pudicamente dall’altra parte mentre lui si cambiava mutande e pantaloni. Poi gli portò una tazza di brodo, un’aspirina e una scatola di biscotti, e rimase seduta accanto a lui a guardarlo mangiare. A quel punto Bebe aveva già deciso che era la bambina più bella che lui avesse mai visto. Quella notte, quando spensero la luce nella baracca, non riuscì a smettere di pensare a lei, quasi si dimenticò della sua schiena in fiamme, e concluse di essere perdutamente innamorato.

Da quel giorno aveva cercato di vedere Mirela il più possibile. Non era facile. Mirela era arrivata da Craiova con con una zia e una cugina (come quasi tutti, del resto; erano appena quattro o cinque i ragazzini che vivevano al campo con i genitori). Mirela andava a mendicare con sua cugina - che era incinta - nella parte sud della città. Queste cose Bebe le aveva sapute semplicemente chiedendo in giro. Che invece Mirela andava matta per il cioccolato lo aveva scoperto da sé, quando le aveva regalato una scatola di gianduiotti (regolarmente acquistata in un bar e orgogliosamente infiocchettata nella confezione regalo, grazie a una cameriera volenterosa che aveva decifrato i suoi gesti) per il suo compleanno. Quel giorno Mirela compiva dodici anni, un anno più di Bebe.

Vedersi durante il giorno, in città, era praticamente impossibile. E la sera, al campo, era difficile. La cugina di Mirela non muoveva un dito, col pretesto che non poteva affaticarsi per via del bimbo in arrivo. Mirela cucinava per sua cugina e sua zia, lavava e cercava di tenere in ordine, nei limiti del possibile, la baracca. Riuscivano a vedersi al momento della cena. Preparata la tavola, Mirela usciva per mangiare per conto suo, e Bebe la raggiungeva. Qualche volta, quando i grandi li facevano entrare nella baracca grande, guardavano la tv. Bebe adorava I Soprano, che Stefan doppiava in rumeno con effetti esilaranti. A Mirela - che masticava un po’ d’italiano - piaceva Buffy l’Ammazzavampiri.

Una sera videro un film – era già cominciato e non sapevano il titolo, ma c’era una nave che affondava - e c’erano un ragazzo e una ragazza, e alla fine lui si lasciava annegare per salvare lei, e a quella scena Mirela prese la mano di Bebe e la strinse forte.

Quella sera Bebe la riaccompagnò alla sua baracca senza lasciarle la mano e le chiese se voleva baciarlo. Lei ci pensò su, serissima. Alla fine disse: - Sì.

- Evviva - pensò Bebe.

- Senza lingua, però. - disse Mirela.

Si baciarono.

Bebe quella notte tardò a prendere sonno. Si immaginò che lui e Mirela si sposavano, e poi lui trovava un lavoro, e otteneva il permesso di soggiorno, e si comprava una macchina, e avevano una casa e anche un cane e un gatto. Avevano appena avuto due gemelli quando crollò addormentato alle cinque del mattino.

E poi un giorno erano venuti a sapere di Strampaland

Mirela aveva trovato un depliant pubblicitario abbandonato su un sedile del tram. “Entra nel mondo fatato dell’orsetto Strampy!”, diceva l’opuscolo. Strampaland era un luna park. - Ma non è il solito luna park. - spiegò Mirela - E’ un parco così grande che ci vuole una giornata intera per girarlo tutto.

- Ma va la’. - disse Bebe.

- Ti giuro, è così.

A Strampaland c’erano le giostre. C’era il villaggio western. C’era La Foresta degli Alberi Sussurranti. E poi c’era Shrieking Falls, la corsa sull’acqua. Bebe guardò stupito la foto del vagoncino che correva su un binario a pelo d’acqua, sollevando tutto intorno grandi pennacchi schiumosi. Bebe - che aveva terrore dell’acqua da quando suo cugino Minya era annegato nel fiume Jiu - pensò che non avrebbe mai fatto una cosa del genere per niente al mondo.

Non era tutto qui: a Strampaland c’era anche Il covo dei pirati, una specie di caverna con statue di pirati che sembravano veri, a guardia di un forziere pieno d’oro con le sciabole sguainate e il pugnale fra i denti. Beh, questo sembrava già più rassicurante di Shrieking Falls.

Invece, sia Bebe che Mirela si pronunciarono severamente sul Trenino di Strampy, un trenino dai colori accesi, con un paio di buffi occhi disegnati sulla locomotiva, che sembrava avere il solo scopo di trasportare marmocchi urlanti e felici.

E poi c’era il Red Rocket. “Nuova attrazione!!!”, era scritto a grandi lettere rosso fiamma sull’opuscolo. Bebe intuì che si trattava di una sorta di ottovolante. Era stato al luna park due volte, e sapeva che cos’era un ottovolante. Ma dalle foto questo ottovolante che si stagliava contro il cielo azzurro, ben oltre i tetti dei padiglioni del parco, sembrava una cosa enorme, e i vagoncini rossi a forma di razzo apparivano minuscoli. Quanto era alto l’ottovolante? Trenta metri, almeno. No, di più, forse cinquanta.

- Chissà com’è questa cosa - disse Bebe, fingendo una perplessità che non provava. Più guardava le foto e più gli piacevano quei razzi rossi, gli piaceva l’idea di sfrecciare tra la terra e le nuvole a cento chilometri all’ora, di sentire il vento sulla faccia bruciargli gli occhi e mozzargli il respiro.

- Beh, sembra divertente. - disse Mirela.

- E magari lo è. - disse Bebe - Forse. - aggiunse scrollando le spalle. Stava già formulando un piano.

Il biglietto d’ingresso a Strampaland costava 25 euro. Per due biglietti, quindi, ci volevano 50 euro. Una cifra tutt’altro che proibitiva per Bebe. Gli accordi con Razvan erano semplici. Se il bottino di Bebe non superava i trecento euro al giorno, Razvan non gli dava niente. Oltre un valore di trecento euro, Bebe prendeva da Razvan quaranta euro. Cinquanta se il valore della merce superava i cinquecento euro. Perciò, l’ingresso a Strampaland costava una giornata di lavoro di Bebe.

Il problema era che Strampaland era lontano dalla città. Alla stazione, Bebe aveva controllato sul tabellone gli orari dei treni. Per arrivare a Strampaland col diretto ci volevano esattamente settantacinque minuti. E per tornare ne occorrevano dieci di più, perché l’ultimo treno utile, alle sei e mezza di sera, era un interregionale e faceva più fermate. In parole povere, la gita a Strampaland richiedeva praticamente una giornata intera. E Bebe dubitava che Razvan gli avrebbe mai concesso un giorno di vacanza. In tutta la settimana i ragazzi avevano solo mezza giornata di riposo, la domenica pomeriggio. E comunque alle otto di sera dovevano essere di nuovo al campo. 

Paradossalmente, Mirela era più libera di Bebe. Il silenzio di sua cugina poteva essere comprato con un paio di calze nuove e una scatola di marron glacés. Se avesse voluto, Mirela avrebbe potuto andare dove voleva, a patto che alle otto facesse puntualmente ritorno insieme a Ilyana. Bebe ci aveva pensato su parecchio, e alla fine aveva concluso che forse Razvan gli avrebbe concesso una giornata libera se lui gliel’avesse pagata. Magari portandogli in un giorno solo il bottino di due giorni. Non che questo fosse facile. Da qualche tempo la stazione era piena di poliziotti, e avevano già pizzicato Catalin e il piccolo Florin. Ma cambiare zona sarebbe stato pericoloso in caso di fuga. Bebe conosceva alla perfezione le strade intorno alla stazione, i semafori, gli spartitraffico, i parcheggi. Cambiare quartiere significava rischiare di finire sotto un autobus buttandosi giù dal marciapiede a rotta di collo, o di infilarsi in qualche vicolo cieco con i poliziotti alle calcagna. O, peggio ancora, di sconfinare nel territorio di caccia di qualcun altro. E anche se Bebe portava sempre un coltello - lo aveva vinto giocando a carte - non aveva intenzione di affrontare albanesi o magrebini in un duello rusticano. Non c’erano alternative. Gli serviva un colpo grosso. E doveva farlo alla stazione.

Gli fu servito su un piatto d’argento, il suo colpo grosso, da un pollo sui venticinque anni. Il pollo aveva un trolley, uno zainetto sulle spalle e un computer portatile a tracolla, e stava consultando il tabellone delle partenze. Vi fece scorrere il dito, poi andò a consultare lo schermo con l’elenco dei treni in arrivo. Fece una smorfia di disappunto e si diresse al bar. Prese un caffè e un cornetto, pagò, e poi andò al chiosco dei giornali. Pescò una rivista di videogiochi, due fumetti e la Gazzetta dello Sport, e porse una banconota da 50 euro al giornalaio.

- Non ho spiccioli - disse il giornalaio - Ha almeno un euro e venti? -

Il pollo posò a terra il portatile, si sfilò lo zainetto dalle spalle, ne tolse il portaspiccioli, contò le monete e le diede al giornalaio. Intascò il resto, rimise il portafogli nella tasca interna del giaccone, infilò i giornali nella tasca esterna del trolley, e infine si risistemò lo zainetto sulle spalle. Solo in quel momento si rese conto, con un tuffo al cuore, che il suo portatile era sparito.

Bebe ricorda come si era sentito felice mentre saliva sull’autobus col computer prudentemente avvolto nel giubbotto. Quando l’autobus era passato davanti al cartellone con la pubblicità di Strampaland, lui si era immaginato già sul Red Rocket con Mirela. Il ricordo di quell’attimo di totale felicità gli procura una sensazione quasi fisica, come se una mano invisibile gli strizzasse i visceri, e per poco non si fa sfuggire un singhiozzo. Il Red Rocket ha finito il suo giro. L’addetto del parco aspetta che la gente esca dall’uscita laterale, poi sgancia il cordoncino che delimita il corridoio di accesso. - Avanti, avanti. - Passano cinque, dieci, quindici persone. Bebe si affretta, ma l’uomo solleva una mano col palmo in fuori e con l’altra riaggancia il cordoncino proprio davanti a lui. - Al prossimo giro. - gli dice, sorridendo comprensivo.

Razvan gli aprì la porta della baracca con aria seccata, senza farlo entrare. Aveva i capelli arruffati e l’aria di essere appena cascato per caso dentro i pantaloni.

- Che cavolo vuoi a quest’ora?

 
- Ti devo parlare.

- Ripassa più tardi.

- E’ importante. - disse Bebe, e tirò fuori il computer da dietro la schiena.

Razvan si fece da parte per lasciarlo entrare, si rimise i lembi della camicia dentro i pantaloni e si tirò su la lampo. Mise il portatile sul tavolo traballante, lo aprì, lo accese. Quando vide la schermata di ingresso scoprì i denti marci in un sorriso.  - Bel colpo.

- Sì. - disse Bebe. Era il momento di chiedere una giornata libera, ma tutto a un tratto si rese conto di non essersi preparato il discorso. Non sapeva da che parte cominciare, e Razvan si accorse subito del suo nervosismo.

- Cosa c’è?

- Sono stato bravo, no?

- Sì. Allora, cosa c’è?

Bebe esitò ancora. Razvan, le sopracciglia aggrottate, aspettava in silenzio. E nel silenzio arrivò un gemito da quella che era la camera da letto di Razvan, separata dal resto della baracca soltanto da una tenda.

Istintivamente, Bebe si voltò verso la tenda.

- Mi senti? - disse Razvan seccato. - Sto parlando con te! -

Bebe non rispose. Lo spiraglio della tenda lasciava intravedere un angolo del letto e una sedia. Sulla sedia era posata una felpa gialla con un disegno di Paperino. Quando Bebe sentì un altro gemito corse verso la tenda e la tirò di lato.

Mirela sollevò di scatto la coperta, stringendola sul petto, un gesto rapido, ma non così rapido da impedire a Bebe di capire che sotto la coperta era nuda. Guardò Bebe spalancando un occhio, uno solo. L’altro era gonfio, violaceo, e la palpebra rimase abbassata. Le labbra erano tumefatte, incrostate di sangue.

Razvan urlò qualcosa che Bebe non sentì, perché anche Bebe stava urlando quando si voltò verso Razvan e gli andò addosso impugnando il coltello.

- Coraggio, sotto a chi tocca - dice l’addetto sganciando il cordoncino, e fa cenno a Bebe e agli altri perché vengano avanti.

Il Red Rocket parte, e lui è a bordo, l’unico posto dove voleva veramente essere. L’unico posto dove poteva andare. Ci ha pensato tutta la notte, raggomitolato su una panchina del parco. Ha ucciso Razvan, e la polizia lo sta cercando. Anche Mircea e gli altri lo stanno cercando. Non ha nessun posto dove andare. Non ha nessuno da cui tornare, nemmeno Mirela, forse la rimanderanno in Romania, chi lo sa. Bebe guarda giù e vede due divise blu in mezzo alla folla, vicino all’addetto del parco, e l’uomo solleva la testa e punta il dito verso l’alto, indicando il Red Rocket.

Il Red Rocket sta vibrando e adesso scende, risale lungo la rotaia ingobbita e poi scende di nuovo, anzi, precipita in verticale a ottanta, novanta, cento chilometri all’ora.

I ragazzi agitano le braccia e gridano, e Bebe stende anche lui le mani, schiaffeggia il vento che gli riempie gli occhi di lacrime, e grida con tutta la voce che ha in gola.