martedì 12 maggio 2020

FAUDA, ovvero IL CAOS DELLA GUERRA



Per me la serie del momento (arrivata alla terza stagione) è su Netflix ed è Fauda.

Una piccola premessa: il conflitto tra israeliani e palestinesi è stato abbastanza raccontato al cinema, ma per lo più con film seriosi, schiacciati dal tema “importante” (e che hanno avuto poco riscontro al di fuori di Israele, salvo forse per Valzer con Bashir).

Fauda ha un approccio diverso. Gli autori non hanno la pretesa di fare uno statement politico. Fauda è un thriller che prende di petto l’argomento e lo svolge come un grande racconto popolare. Un po’ come, da noi, La Piovra aveva affrontato il difficile argomento della lotta alla mafia.

Per chi non lo sapesse: Fauda (“caos” in arabo) nasce dall'incontro tra un giornalista, Avi Issacharoff, con Lior Raz, ex componente della Mista’arvim, unità speciale di poliziotti israeliani infiltrati nelle comunità arabe per combattere il terrorismo. Issacharoff e Raz hanno avuto l’idea di proporre a Netflix una serie basata proprio sulle esperienze di Raz come infiltrato. E il resto, come si dice, è storia. 

 
Lior Raz. Quando si dice avere le physique du rôle

Il protagonista principale è lo stesso Raz, nei panni del poliziotto Doron Kabilio. La storia comincia quando Doron, ritiratosi dalla Mista’arvim, è richiamato in servizio per catturare il terrorista Taufiq Hamed. Doron riesce a individuare Hamed, ma il blitz per la cattura finisce male. L’incolpevole fratello di Hamed viene ucciso, e Hamed fugge. E, da quel momento, la caccia al terrorista diventa una vendetta personale che prescinde dalla causa politica. E che si abbatte con un effetto domino su tutti coloro che ne vengono coinvolti, direttamente o indirettamente, da entrambi i lati della barricata.

Alla base Fauda utilizza stilemi e personaggi collaudati del poliziesco e della spy story. Il poliziotto troppo coinvolto dal lavoro in crisi familiare. Il capo burbero, ma in fondo sentimentale. La testa calda della squadra. La bellona abile con le armi. Il valore dell’amicizia. La lealtà e il tradimento. Il fine che giustifica i mezzi, o forse no. Niente di tremendamente nuovo, ma raccontato efficacemente con una messa in scena iperrealistica: vicoli affollati, edifici fatiscenti, barbe lunghe e facce stropicciate dal caldo e dalla tensione. Ma c’è qualcos’altro.

Le serie televisive ci hanno abituato da almeno una decina di anni alla commistione dei generi, a un’alternanza sempre più decisa di registri stilistici, a una spartizione più equa della cosiddetta “linea orizzontale” (il plot) e “linea verticale” (il racconto del singolo personaggio). Fauda mette a frutto la lezione di serie come The Shield e Homeland, ma in un contesto storico, politico e geografico – quello mediorientale – ancora non inflazionato dalla fiction. 

Perciò il registro stilistico del thriller e della spy story si intreccia spesso con quello sentimentale: le vicende familiari hanno grande spazio. Ed è proprio nella parte palestinese del racconto che la serie diventa più interessante, perché ci mostra come la scelta del terrorismo non coinvolga solo aspiranti “shahid” (martiri) che hanno lasciato la famiglia per combattere in clandestinità. Ci sono anche quelli che non vorrebbero lasciare ai figli un’eredità di sangue. Ci sono fratelli divisi da scelte di vita agli antipodi. Mogli fedeli e fanatiche quanto i mariti, e mogli che cercano di proteggere i figli dalle scelte del loro padre. Generazioni reclutate in una leva obbligatoria del terrore, catapultate in un conflitto da combattere senza discutere.

Tough chicks. Rona Lee-Shimon è Nurit, unica donna della squadra.

E infine, c’è il registro da film bellico. Perché in fondo, attraverso il thriller, la spy story e le saghe familiari, Fauda racconta una guerra. È un conflitto di quelli detti “a bassa intensità”, che non conta migliaia di morti, ma è pur sempre una guerra. E noi non seguiamo le storie dei generali o dei leader, ma dei combattenti in trincea. Persone comuni, probabilmente molto più simili tra loro di quanto i rispettivi ruoli farebbero sospettare. Uomini e donne che combattono “perché sì”: perché si obbedisce agli ordini, perché si è fedeli alla causa. Ma il caos confonde tutto: verità e menzogna, giusto e sbagliato, amor di patria e vendette personali, e conta solo vincere la prossima battaglia, fingendo di sapere che nessuno vincerà mai la guerra.

Dentro il thriller – gli agguati, le sparatorie e le esplosioni – c’è uno spaccato di vita che nessun articolo di giornale, per quanto documentato, può raccontare con altrettanta forza. Ed è per questo che la serie, parlata quasi completamente in arabo, si è conquistata una considerevole audience anche nei paesi arabi, un caso davvero singolare per una fiction israeliana.

Per gli spettatori italiani: la serie è arrivata alla terza stagione. Nella versione italiana sono doppiati solo i dialoghi in ebraico, e quelli in arabo sono sottotitolati. 

Laetitia Eydo è la dottoressa Shirin-El Habed 
(il più bel personaggio delle prime due stagioni)

Shadi Mar'i è Walid. 


 

lunedì 9 marzo 2020

NOBODY KNOWS ANYTHING

Nel suo fondamentale Adventures in the Screen Trade, lo sceneggiatore William Goldman (Butch Cassidy, Misery, Potere assoluto) avverte che in fatto di cinema Nobody knows anything. Tradotto liberamente, "nessuno conosce davvero alcunché". E questa storia (raccontata in un altro libro fondamentale per i cinefili, Easy Riders Raging Bulls, di Peter Biskind) lo dimostra matematicamente.


Il giovane regista è nervoso. Sta per mostrare un premontaggio del suo film ai suoi amici e colleghi più fidati, anche loro registi e sceneggiatori, e al produttore. Di quel ristretto gruppo manca solo una persona, un regista che ha dato forfait all’ultimo momento. Anni dopo, spiegherà così il suo rifiuto di sbirciare in anteprima il lavoro dell’amico: “La realtà è che non vuoi vedere un film che sai migliore del tuo. E anche se i tuoi amici più cari dicono che è il tuo a essere migliore, tu sai che non è così”.

La proiezione comincia. Il regista aspetta ansiosamente l’opinione dei suoi amici, e soprattutto quella del produttore. Sta lavorando a quel progetto da cinque anni. Grazie al successo del suo film precedente, è riuscito a rinegoziare il contratto e ad assicurarsi diritti sulla colonna sonora, sui sequel e sull’eventuale merchandising. È stato accontentato senza problemi. Ridicolo pensare che ci siano sequel, e il merchandising richiede troppo tempo per uscire sul mercato e sfruttare la risonanza di un film.

“Voglio fare un film Disney”. Il regista lo ha detto e ridetto agli amici senza troppi giri di parole. Ha fatto tutti i conti. L’incasso medio di una pellicola Disney è di 16 milioni di dollari. Lui sa che gli ci vorrà un budget di 10 milioni di dollari. La casa di produzione gliene ha concessi 8 e mezzo, ma lui ha voluto cercare di persona i finanziatori. Conta sempre su un budget di 10, e conta di ricavare alla fine un utile di almeno 6 milioni di dollari.

Se il film andrà bene, s’intende. Ed è un grosso “se”. Perché ora, a vedere questo primo, rozzo montaggio, il lavoro sembra denunciare grosse pecche. Gli attori, giovanissimi, sono poco espressivi, e forse non per colpa loro. Forse aveva ragione l’attore che gli aveva detto: “Puoi anche scrivere questi dialoghi, ma ti assicuro che non si possono recitare”. E il montaggio è fiacco, privo di tensione. La moglie del regista, che aveva cominciato a lavorarci, ha poi abbandonato il progetto per andare a lavorare al film di un amico. Ora però anche lei è lì. E appena la proiezione termina, seguita dall’imbarazzato silenzio dei presenti, scoppia a piangere.

“E’ orrendo”, dice tra le lacrime.

Uno degli amici, regista anche lui, demolisce il film, definendolo un pastrocchio incomprensibile e perfino ridicolo. Gli amici sceneggiatori tacciono imbarazzati, non osando esternare quello che pensano. Il produttore, che aveva dato totale fiducia al giovane talento, è una statua di sale.

Solo uno dei presenti – il più giovane della compagnia – ha un’altra opinione. E dice tranquillamente: “Questo film farà cento milioni di dollari”. Lo guardano tutti come se fosse impazzito. Se voleva consolare il suo amico, una silenziosa pacca sulla spalla sarebbe stata più sensata.

E invece Steven ha perfettamente ragione a tranquillizzare l’amico George: Guerre Stellari li farà, cento milioni di dollari. In soli tre mesi.

Nobody knows anything. 

Forse Martin Scorsese aveva avuto un po’ di coda di paglia nel defilarsi dall’anteprima del film di Lucas. Dopotutto, Scorsese aveva scippato a Lucas la moglie Marcia per farsi montare New York, New York. Che sarà un clamoroso flop, nonostante due star come De Niro e Liza Minnelli. Tra i “danni collaterali” del successo di Guerre Stellari ci sarà l’affondamento ai botteghini di Sorcerer di William Friedkin, sontuoso e incompreso remake del Salario della Paura di Clouzot: un fiasco che oscurerà la carriera del regista dell’Esorcista. Brian De Palma continuerà a dirigere con alterne fortune, alternando flop a successi: nessuno di questi ultimi, però, raggiungerà mai le dimensioni del film dell’amico George, che lui aveva così brutalmente stroncato.