Visto che al cinema ci sono un film di Greta Gerwig e uno di Christopher Nolan, viene da pensare che il film di Nolan sia Barbie. Perché lo sforzo (o meglio, lo sfarzo) produttivo è da kolossal, per la grandiosità della messa in scena e le invenzioni visive (e non tele-visive). Una dichiarazione di intenti è già nel prologo, ricalco fedele dello storico incipit di 2001: Odissea nello spazio: Barbie-monolito scende sulla Terra per aiutare il genere femminile a compiere il balzo evolutivo oltre il patriarcato. Il primo atto è già stupefacente di per sé, un’esplosione di musica e colori mozzafiato. Barbie – una Margot Robbie travolgente - vive felice nel suo mondo di plastica, finché è assalita all’improvviso da inspiegabili pensieri di morte. Un malessere interiore che prelude al tracollo fisico, preannunciato da un curioso fenomeno: i famosi piedini sagomati apposta per i tacchi alti, e quindi sempre in equilibrio sulle punte, tornano orizzontali: i talloni ora toccano il terreno. Una efficace trovata che funziona su due livelli, quello visivo e quello metaforico: Barbie “mette i piedi per terra” in tutti i sensi: l’unico modo per sconfiggere il suo inedito spleen è andare nel mondo reale e trovare la bambina che, giocando con lei, tira i fili della sua vita. Ken però decide di seguire Barbie, e il loro viaggio nel mondo umano – cioè in California – avrà conseguenze molto diverse per i due.
Le loro strade infatti si separano: Barbie scopre che il suo malessere risale non ai giochi di una bambina, ma ai sogni infranti di una madre single. Grazie all’incontro con la sua creatrice alla Mattel acquisterà coscienza del girl power, mentre Ken sarà attratto dalla mascolinità tossica, a base di poster con cavalli al galoppo e frigoriferi pieni di birra. E quando Barbie torna al suo mondo lo trova rimodellato al maschile, non più Barbieland ma Kenland (“Kendom-land”, specifica lui, laddove la parola suona come “Kingdom”, regno). A Barbie non resterà che mettere a frutto la sua lezione di vita nel mondo reale per guidare tutte le Barbie alla riscossa contro lo strapotere maschile. Colorato, eccessivo, citazionista, a tratti demenziale, il film tenta l’ardua impresa di celebrare il successo di un brand sotto la lente di uno sguardo autoriale. E in effetti la sceneggiatura riesce a infilare più di una arguta considerazione sul conflitto tra le due metà del cielo, senza rinunciare a un ritmo vivace, retto alla grande da interpreti perfettamente affiatati. Impagabili i duetti Robbie-Gosling, ben controbilanciati da quelli tra America Ferrera e la giovanissima Ariana Greenblatt, così da evitare che il registro demenziale (dominante in tutta la parte di Will Ferrell) faccia deragliare il film. Tutto perfetto, meraviglioso e luccicante come Barbieland, allora?
Non proprio: perché nel secondo atto la logica fiabesca del racconto a volte si inceppa in passaggi farraginosi, e la voglia di femminismo militante straripa a danno delle figure maschili: per quanto alcune battute sul patriarcato risultino centrate, le forze in campo risultano in effetti assai sbilanciate a favore del mondo femminile; a maggior ragione quando si nota che le varie Barbie-scrittrice, Barbie-premio Nobel, Barbie-campionessa di atletica non hanno un equivalente maschile tra i vari Ken, tutti livellati sul modello “tipo da spiaggia”, e nemmeno particolarmente virile, tanto da fare sembrare il loro esercito un fan club dei Village People. Se qualche Ken fosse risultato somigliante a Brad Pitt, Hugh Jackman o Chris Hemworth, il cedimento delle Barbie al loro fascino sarebbe risultato più credibile, e l’esito finale della battaglia dei sessi meno scontato. Sul piano dei contenuti, Barbie finisce così per risultare un po’ penalizzato dal proprio azzardo proprio nel finale, sbandando allegramente tra divertimento puro e statement femminista senza tenere sempre la barra dritta. Ma le considerazioni sociologiche vengono in seconda battuta: sorretto da interpreti in stato di grazia, ingegnose trovate visive e un ritmo vivace, il film di Greta Gerwig (co-scritto col marito Noah Baumbach) sfoggia una vitalità contagiosa. E si esce dalla sala – perché sì, è un film da vedere su grande schermo - col sorriso.
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