Al di fuori di pochi appassionati di fumetti, il suo nome non è noto. Eppure era un nome importante, che suonava come quello di un antico romano. Dopotutto, era discendente di quello Stefano Canzio che sposò Teresita Garibaldi, figlia del generale. Decio Canzio è stato per circa quarant’anni il più stretto collaboratore di Sergio Bonelli, e per più di trenta direttore generale della casa editrice. È stato quindi anche il mio direttore, fino al momento della sua pensione.
Era un omone imponente, sornione e un po’ burbero, di una compostezza tipicamente milanese. Non amava apparire (ci sono pochissime sue fotografie in giro), e limitava le apparizioni pubbliche agli obblighi di rappresentanza della casa editrice. Raramente alzava la voce. Perché non ne aveva bisogno per essere autorevole e, all’occorrenza, anche tagliente.
Era una persona coltissima. Come diceva Antonio Serra: “Se due enciclopedie riportano una data per un certo evento, Decio ne ha sicuramente un’altra che riporta un’altra data, ed è quella esatta.” Ma non sarebbe diventato il più stretto collaboratore di Sergio Bonelli se non fosse stato un formidabile narratore e editor.
Dopo avere scritto quasi seimila pagine per la serie Il piccolo ranger negli anni settanta e alcune sceneggiature per la serie Un uomo un’avventura, a partire dagli anni ottanta ricoprì il ruolo di direttore generale della casa editrice. Di fatto, a parte le incombenze “di rappresentanza” in quanto numero due della Sergio Bonelli Editore, svolse il ruolo di super-supervisore: leggeva (e, se era il caso, correggeva) praticamente ogni pagina che uscisse dalla casa editrice per andare in stampa. Dunque, anche quelle che scrivevo io.
Ero uno sceneggiatore giovane, nemmeno trentenne, quando lo incontrai per la prima volta e lo vidi dietro la sua scrivania, una sorta di monumentale Nero Wolfe del fumetto. Non era facile non averne soggezione. E infatti io ne avevo. Praticamente come Fracchia davanti al capufficio, il cav. Dott. Ulisse Acetti. Ci volle qualche anno perché quella soggezione diventasse stima.
Una volta mi lamentai con Antonio Serra della quantità di correzioni di Canzio sui testi di una mia storia di Nathan Never. Dissi ad Antonio che se Canzio avesse dovuto applicare lo stesso metro alla storia X dello sceneggiatore Y, uscita in edicola un mese prima, neanche una pagina si sarebbe salvata.
Il legionario Antonio (Serra) a rapporto dal console Decio.
“Non hai capito – disse Antonio – Decio ti corregge perché ti stima.”
“Cioè, mi stai dicendo che mi corregge ogni balloon di dialoghi che andavano bene comunque, però ha una buona opinione di me?”
“Certo. Se ti corregge, vuol dire che ti legge con interesse e vuole che la tua storia venga fuori al meglio.”
“E la storia di Y, allora?”
“Y non gli piace. Si annoia a leggere le sue cose, e quindi corregge solo gli svarioni veri e propri”.
Alla fine capii che era vero. Così come mi fu chiaro che alcuni suoi interventi erano “di default” per far rientrare noi scavezzacolli nei paletti della “bonellità” (e anche, diciamola tutta, per assecondare certe fisime dell’editore). Ma capii che la sua revisione era tesa a far sì che le storie filassero, che non ci fossero sviste o contraddizioni, e soprattutto che ogni singola vignetta fosse immediatamente comprensibile nel testo e nei disegni. “Non dobbiamo generare confusione nel lettore”. Anche il meno sveglio dei lettori doveva leggere la storia d’un fiato, senza tornare indietro a rileggere per capire un passaggio farraginoso.
Imparai presto la ratio dietro alle sue correzioni, e imparai a limare i miei dialoghi, che in effetti a volte erano eccessivamente lunghi, o con battute troppo arzigogolate per risultare efficaci. Imparai anche a dirgli che a volte non ero d’accordo con i suoi interventi. Al che lui rispondeva sornione: “Ne prendo atto, Medda”. Burbero, sì, ma quando uscì una mia storia di Tex con alcune modifiche (ai miei occhi comprensibilissime), mi scrisse una lettera per spiegarmi nel dettaglio perché erano state fatte. Una lunga spiegazione che non era assolutamente tenuto a darmi.
A un certo punto smise di chiamarmi per cognome, e cominciò a chiamarmi per nome. Il rito della visita nel suo ufficio, che agli esordi sembrava il rapporto al colonnello da parte del giovane sottufficiale appena uscito dall’accademia, diventò una chiacchierata sul più e sul meno. Parlavamo di cinema. Mi chiedeva della Sardegna, e mi raccontava di quando c’era stato da giovane, in posti davvero incontaminati. Mi disse che agognava una vacanza in un posto remoto, dove potesse guardare fino all’orizzonte senza trovare tracce di presenza umana, neanche i pali dell’elettricità. E una volta – con mio assoluto stupore – mi disse che si era commosso fino alle lacrime guardando il film Fluke, la storia fiabesca di un cane che scopre di essere la reincarnazione di un uomo.
Paradossalmente, quando mi trasferii a Milano non ebbi modo di vederlo spesso come quando venivo in città dalla Sardegna. Il lavoro di supervisione delle serie, vista la quantità, era stato distribuito tra vari redattori. Canzio si era tenuto per sé solo la supervisione delle ristampe di Tex.
L’ultima volta che ebbi modo di scambiare qualche parola con lui fu durante la riunione per l’approvazione di Caravan, a cui lui presenziò per pochi minuti. Prima di andare via mi prese da parte e mi disse che apprezzava il mio tentativo di fare una serie diversa, ma che il pubblico non lo avrebbe capito. Non lo disse con tono di rimprovero, però. Sembrava piuttosto un padre preoccupato che il figlio si cacciasse nei guai.
Pochi anni dopo ebbe problemi di salute. L’età avanzava, d’altronde, ed era tempo di andare in pensione. Si mormorava che in redazione gli avessero preparato un party di congedo per l’ultimo giorno di lavoro. La cosa probabilmente gli arrivò alle orecchie: così il giorno fatidico telefonò in ufficio per dire che non stava bene, che sarebbe rimasto a casa, e tanti cari saluti a tutti. Probabilmente si immaginava un party con le trombette, i cappellini colorati, il discorso di commiato condito di retorica di circostanza, e forse anche qualche lacrimuccia delle segretarie. Troppo, per uno che aveva fatto della discrezione uno stile di vita.
Se ne andò il 4 gennaio 2013, testardamente coerente fino all’ultimo, anzi, fino alle ultime volontà: nessuna messa e nessun funerale. Perfino quello sarebbe stato un evento troppo mondano per lui.
Come dicevo, non
circolano molte foto di Canzio, e per la maggior parte risalgono ai
suoi ultimi anni in casa editrice, quando già la salute vacillava.
Mi piace ricordarlo sorridente con questa foto, scattata sicuramente
a una delle edizioni di Inovafumetto, a Lugano. Dietro di lui ci sono
Antonio Carboni, l’organizzatore dell’evento, e Sergio Bonelli.
La foto l’ho presa dal blog di Moreno Burattini, che contiene anche
un articolo sulla produzione fumettistica di Decio Canzio.