domenica 27 dicembre 2020

I BANDITI DI JAN

 

C’è una serie belga, su Netflix, che è passata piuttosto inosservata. Ed è un peccato, perché merita una visione per molti motivi. Prima di tutto, un’ambientazione storica e geografica non proprio battutissima dalle fiction, cioè le Fiandre nella prima metà del Settecento. Secondo, una trama che, pur con momenti di suspense e violenza, spoglia il racconto da ogni enfasi epica e lo restituisce alla dimensione tragica della Storia.

“I banditi di Jan” (De bende van Jan de Lichte in originale, Thieves of the Wood in inglese) racconta, con le ovvie licenze narrative, la storia vera di Jan De Lichte, capo di una banda di reietti, costretti a vivere di rapine nei boschi intorno alla cittadina di Aalst.

Tutto comincia con l’arrivo ad Aalst, più o meno contemporaneo, di Jan (disertore dell’esercito e ricercato per omicidio) e del nuovo balivo, Baru, che svolge il ruolo di capo della polizia. Baru è un funzionario integerrimo, ma si trova costretto ad assecondare lo spietato e vizioso borgomastro Coffijn, che governa Aalst col pugno di ferro.

Jan si unisce a una banda di reietti accampati nel bosco, che sopravvive come può con i proventi di rapine e di prostituzione. E che si deve guardare nello stesso tempo dagli sgherri di Coffijn e da una banda di altri disperati, guidati dal vecchio bandito Izjeren Simon. Il ritorno di Jan ridà speranza alla comunità, ma allo stesso tempo mette in crisi la leadership del suo vecchio amico Tincke, più propenso a fare affari per sé che per il gruppo. E questo avvia una catena di eventi inarrestabile... 

 


Su una struttura di racconto avventuroso molto classica, “alla Robin Hood”, una storia di oppressi che si ribellano agli oppressori, si snoda un racconto corale che di tradizionalmente epico ha ben poco: un impressionante lavoro di ricostruzione storica di ambienti e costumi ci restituisce un Settecento degradato materialmente e moralmente. Su questo sfondo si muovono personaggi tragici, in lotta contro un destino inesorabile, in un mondo in cui l’unico progresso sembra essere solo la scoperta di nuove modalità di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

La serie è interamente prodotta in Belgio, e in originale è recitata in olandese. Gli attori, tutti belgi, per noi sono sconosciuti, ma piuttosto convincenti (a parte forse la curiosa scelta di Anne-Laure Vandeputte che, pur brava, dall’alto del suo metro e ottantuno non sembra esattamente una fragile orfanella). 

 

Insomma, storia intrigante, “production value” eccellente, attori in palla. Tutto perfetto? Non proprio. Si chiude serenamente un occhio su soluzioni poco realistiche (Jan trascinato dal cavallo si rialza praticamente illeso!), ma ci sono veri e propri vicoli ciechi narrativi che non aggiungono niente al plot (l’accoltellamento di “Stivale” e il subplot dell’esorcismo) e allungano il brodo, mentre per converso ci sono diverse ellissi sull’azione, che scartano un po’ snobisticamente i momenti più spettacolari. Eppure non si può non restare affascinati da questo affresco crudele, sicuramente una delle migliori produzioni europee di Netflix. Rimane inappagata, purtroppo, la curiosità di leggere il romanzo originale di Louis Paul Boon, mai tradotto fuori dell’Olanda.


 

giovedì 29 ottobre 2020

BLACK DEATH - UN VIAGGIO ALL'INFERNO (2010)

Siamo nell’Inghilterra del 1348, devastata dalla peste. Pochi riescono a scampare al contagio, e tra questi c’è il giovane monaco Osmund, combattuto tra la fede e l’amore per la bella Averill. Lei vuole fuggire dal villaggio devastato dall’epidemia e lui potrebbe raggiungerla, ma viene cooptato come guida da un drappello di mercenari capitanati dal comandante Ulric. Il vescovo li ha mandati a cercare un villaggio che sembra sia immune dal contagio per i sortilegi di un negromante. La Chiesa vuole che il negromante sia eliminato a ogni costo: deve essere davvero molto potente, se la squadra mandata precedentemente a snidarlo non ha fatto ritorno... 

  

Ho una debolezza: adoro i film in cui non sai quale genere di film stai guardando, se un film “realistico” (al netto delle ovvie licenze narrative) o un film fantastico. Per esempio Mississippi Adventure, K-Pax, Vita di Pi. Anche in Black Death, a un certo punto, ci si pone questo interrogativo. E ovviamente non vi svelerò la risposta. 

  

Il film si apre con squarci macabri su un’umanità afflitta dalla peste, prosegue con una cruda sequenza d'azione, e infine approda a un horror quasi psicologico che ricorda un piccolo cult come The Wicker Man (l’originale). Tutto assemblato con rigore dal regista Christopher Smith, che ha alle spalle diversi titoli interessanti: Severance – tagli al personale, Creep, Triangle. Alla sceneggiatura Dario Poloni, londinese di padre italiano, già sceneggiatore del robusto Wilderness, di Michael J. Bassett. E infine, un ottimo cast: Sean Bean è Ulric, Eddie Redmayne è Osmund, e la negromante è Carice Van Houten (dopo Black Book e prima del Trono di Spade). Ma anche i co-protagonisti non sfigurano, a cominciare da John Lynch, che rivedremo presto in The Banishing (ancora un horror, e ancora diretto da Smith).

A metà strada tra il film d’avventura per adulti e l’horror, con un look realistico a dispetto di vistosi anacronismi, Black Death si chiude con un notevole pessimismo di fondo, equamente spartito nei riguardi delle due fazioni in lotta. Religione ufficiale e paganesimo sono due modi diversi di rivestire la stessa cosa: una pulsione insopprimibile alla violenza e al dominio. È questo il vero contagio, che divora le anime così come la peste divora i corpi. 


Il trailer è qui.

mercoledì 13 maggio 2020

DIECI ANNI FA, CARAVAN



L'11 maggio del 2010 usciva in edicola il dodicesimo e ultimo numero di Caravan, a tutt’oggi il lavoro a cui sono più legato.

Editorialmente parlando, un decennio oggi equivale a un’era geologica. E considerate anche che l’idea della serie era stata approvata da Sergio Bonelli ben quattro anni prima, nel 2006.

All’epoca, per quanto Caravan non fosse la prima miniserie per la casa editrice, costituiva una novità assoluta. Era la prima miniserie che non avesse per protagonista un eroe, ma un "personaggio collettivo”: l’intera popolazione di una cittadina in fuga, guidata da militari verso una meta sconosciuta che avrebbe dovuto offrire rifugio da una minaccia altrettanto sconosciuta, secretata per motivi di “sicurezza nazionale”.

Una storia on the road di millecentoventotto pagine, divisa in dodici episodi e in continuity, per quanto spezzata da flashback e da flashback dentro i flashback, in una stratificazione di linee narrative certamente inedita per le pubblicazioni Bonelli (e, credo, con pochi precedenti anche oltreoceano). 


Una storia in parte “italiana”, nonostante la collocazione fisica negli Stati Uniti. I protagonisti principali erano i componenti della famiglia Donati: Massimo Donati, sua moglie Stephanie, i figli Davide ed Ellen, e un jackrussell terrier di nome Chip.

Una storia - l'unica, credo - in cui, pur non raccontando nessun fatto reale della mia vita, ho riversato molto di me, anche se non a livello strettamente autobiografico. Forse ho scritto una sorta di autobiografia del mio immaginario, a cominciare dalla passione per la musica. Caravan inizia con una citazione musicale nascosta (il calcio di rigore del piccolo Nino di De Gregori), e si conclude con una citazione esplicita (ovviamente, di Bob Dylan). Esattamente nel mezzo del racconto, nel sesto episodio, c'è il mitico concerto italiano di Springsteen del 1984 (che non ho visto, e che ha un ruolo cruciale nella storia dei Donati).

Ma in Caravan c'è anche il cinema: che si incrocia con i fumetti, tramite Dellamorte Dellamore, e che diventa protagonista nel secondo episodio, dove racconto a modo mio Easy Rider. E poi ci sono le due città che mi hanno adottato, Milano e Firenze.

Per il sottoscritto, scrittore né prolifico né (fino a quel momento) particolarmente veloce, quello di Caravan è stato uno sforzo mai sostenuto prima. Più di mille tavole ambientate in cinque decenni diversi, attraversati da una folla di personaggi e di relativi automezzi da distinguere uno per uno, affidata a uno staff di disegnatori da coordinare in ogni dettaglio, vista la stretta continuity del racconto. 

E non c’erano solo problemi organizzativi, ma anche quelli che riguardavano il contenuto delle storie. Sergio Bonelli, com’è noto, era tradizionalmente refrattario ad affrontare l’attualità e argomenti “divisivi” nelle sue pubblicazioni. Una cosa era inserire in una storia avventurosa qualche elemento realistico per definire un determinato contesto, altro conto era fare accenni espliciti alla storia recente, alla religione, e parlare di un argomento come il terrorismo.

Perfino le copertine presentavano un nodo da sciogliere, quello dell’assenza di armi e di qualsiasi situazione di tensione. L'editore era sconcertato: che cosa avrebbe potuto suggerire al lettore “bonelliano” una copertina con due ragazzi sotto un cielo in tempesta?



Copertine del numero 1 di tre diverse miniserie. 
Trovate le differenze...


Il problema ovviamente era aggirabile: negli episodi di Caravan le armi sono presenti, e in qualche caso fanno fuoco. Ma costruire le copertine sugli attimi più drammatici e/o violenti del racconto avrebbe significato ingannare il lettore.

Con Emiliano Mammucari, copertinista oltre che disegnatore, optammo per la massima trasparenza possibile. Ma d’altronde, per i lettori, l’assenza di elementi action dalle copertine era l’elemento meno “provocatorio” di Caravan


Riflessione col senno di poi: il cubo di Rubik, che nella storia avevo usato come metafora della misteriosa operazione Painted Sky, avrebbe potuto essere usato come metafora della serie.

La sfida al lettore era costituita dalla serie stessa: non esplicitamente avventurosa, e non dichiaratamente fantascientifica nonostante l’enigmatica premessa. Con lunghe sequenze di dialogo da racconto minimalista e con momenti thriller. Saga familiare, ma anche romanzo di formazione, il tutto narrato con uno zig-zag spaziotemporale tra luoghi e decenni diversi.

Caravan fu una serie apprezzata e detestata con pari intensità dai lettori, e generò lenzuolate di discussione sui forum, soprattutto per un finale che risultò spiazzante per l’epoca. Specifico “per l’epoca” perché oggi, dieci anni dopo, rileggere quei commenti sconcertati sembra un’operazione di archeologia della narrazione: le serie tivù ci hanno abituato a ogni sorta di contorsionismo narrativo spaziotemporale, e ormai i finali “spiazzanti” sono così frequenti che difficilmente spiazzano sul serio.

Metafumetto: il colonnello Warren si fa portavoce dei 
lettori nell'ultimo episodio di Caravan.

In ogni modo, visto che oggi si dibatte su haters e odio “da social”, vale la pena ricordare anche che accompagnai l’uscita della serie con un blog appositamente dedicato, e che i commenti furono sempre educati (nell’arco di dodici mesi, quelli che eliminai si contarono sulle dita di una mano). Forse fu solo fortuna. Forse fu il fatto che i social network allora non avevano la diffusione capillare di oggi. O forse, più semplicemente, fino a dieci anni fa vivevamo in un mondo non ancora completamente imbarbarito, chi lo sa.

Intanto, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta anche per la casa editrice, che ha pubblicato miniserie molto diverse fra di loro, rompendo il monopolio del bianco e nero e infrangendo il tabù del divieto all’ambientazione italiana (Il commissario Ricciardi, Mercurio Loi, Cani sciolti).

Dunque, oggi probabilmente Caravan non sconcerterebbe il lettore come allora. 

Concludo con qualche dato oggettivo. A un certo punto cominciò a correre sul web la voce che la serie fosse un fiasco. Non mi presi il disturbo di smentire. Non sono ossessionato dai tabulati di vendita. Ma se volete sapere come andò davvero Caravan, ve lo dico. Non fu esattamente un successo, almeno secondo le cifre a cui la casa editrice era abituata, ma non andò affatto male. Tirate le somme, la vendita media fu di 35/36.000 copie. Una cifra che oggi, per una miniserie, sarebbe da leccarsi i baffi.

Inoltre, Caravan si aggiudicò anche un paio di riconoscimenti fumettistici (uno a Lucca Comics & Games nel 2009 per le migliori sceneggiature, e uno al Cartoomics di Milano nel 2010, per le copertine di Emiliano Mammucari).

Fu pubblicata integralmente in Francia, dalle edizioni Clair de Lune, e in Serbia dalla Phoenix Press.

Nel 2014 la serie è uscita in libreria in una edizione riveduta e corretta, raccolta in due volumi che contengono sei episodi ciascuno.

Ancora oggi Caravan rimane una serie unica nella storia della casa editrice. E credo che resterà tale anche per me, frutto di un momento creativo probabilmente irripetibile. Il mio unico rimpianto è che i miei genitori non abbiano potuto leggerla. Ed è per questo che l'ho dedicata a loro.




martedì 12 maggio 2020

FAUDA, ovvero IL CAOS DELLA GUERRA



Per me la serie del momento (arrivata alla terza stagione) è su Netflix ed è Fauda.

Una piccola premessa: il conflitto tra israeliani e palestinesi è stato abbastanza raccontato al cinema, ma per lo più con film seriosi, schiacciati dal tema “importante” (e che hanno avuto poco riscontro al di fuori di Israele, salvo forse per Valzer con Bashir).

Fauda ha un approccio diverso. Gli autori non hanno la pretesa di fare uno statement politico. Fauda è un thriller che prende di petto l’argomento e lo svolge come un grande racconto popolare. Un po’ come, da noi, La Piovra aveva affrontato il difficile argomento della lotta alla mafia.

Per chi non lo sapesse: Fauda (“caos” in arabo) nasce dall'incontro tra un giornalista, Avi Issacharoff, con Lior Raz, ex componente della Mista’arvim, unità speciale di poliziotti israeliani infiltrati nelle comunità arabe per combattere il terrorismo. Issacharoff e Raz hanno avuto l’idea di proporre a Netflix una serie basata proprio sulle esperienze di Raz come infiltrato. E il resto, come si dice, è storia. 

 
Lior Raz. Quando si dice avere le physique du rôle

Il protagonista principale è lo stesso Raz, nei panni del poliziotto Doron Kabilio. La storia comincia quando Doron, ritiratosi dalla Mista’arvim, è richiamato in servizio per catturare il terrorista Taufiq Hamed. Doron riesce a individuare Hamed, ma il blitz per la cattura finisce male. L’incolpevole fratello di Hamed viene ucciso, e Hamed fugge. E, da quel momento, la caccia al terrorista diventa una vendetta personale che prescinde dalla causa politica. E che si abbatte con un effetto domino su tutti coloro che ne vengono coinvolti, direttamente o indirettamente, da entrambi i lati della barricata.

Alla base Fauda utilizza stilemi e personaggi collaudati del poliziesco e della spy story. Il poliziotto troppo coinvolto dal lavoro in crisi familiare. Il capo burbero, ma in fondo sentimentale. La testa calda della squadra. La bellona abile con le armi. Il valore dell’amicizia. La lealtà e il tradimento. Il fine che giustifica i mezzi, o forse no. Niente di tremendamente nuovo, ma raccontato efficacemente con una messa in scena iperrealistica: vicoli affollati, edifici fatiscenti, barbe lunghe e facce stropicciate dal caldo e dalla tensione. Ma c’è qualcos’altro.

Le serie televisive ci hanno abituato da almeno una decina di anni alla commistione dei generi, a un’alternanza sempre più decisa di registri stilistici, a una spartizione più equa della cosiddetta “linea orizzontale” (il plot) e “linea verticale” (il racconto del singolo personaggio). Fauda mette a frutto la lezione di serie come The Shield e Homeland, ma in un contesto storico, politico e geografico – quello mediorientale – ancora non inflazionato dalla fiction. 

Perciò il registro stilistico del thriller e della spy story si intreccia spesso con quello sentimentale: le vicende familiari hanno grande spazio. Ed è proprio nella parte palestinese del racconto che la serie diventa più interessante, perché ci mostra come la scelta del terrorismo non coinvolga solo aspiranti “shahid” (martiri) che hanno lasciato la famiglia per combattere in clandestinità. Ci sono anche quelli che non vorrebbero lasciare ai figli un’eredità di sangue. Ci sono fratelli divisi da scelte di vita agli antipodi. Mogli fedeli e fanatiche quanto i mariti, e mogli che cercano di proteggere i figli dalle scelte del loro padre. Generazioni reclutate in una leva obbligatoria del terrore, catapultate in un conflitto da combattere senza discutere.

Tough chicks. Rona Lee-Shimon è Nurit, unica donna della squadra.

E infine, c’è il registro da film bellico. Perché in fondo, attraverso il thriller, la spy story e le saghe familiari, Fauda racconta una guerra. È un conflitto di quelli detti “a bassa intensità”, che non conta migliaia di morti, ma è pur sempre una guerra. E noi non seguiamo le storie dei generali o dei leader, ma dei combattenti in trincea. Persone comuni, probabilmente molto più simili tra loro di quanto i rispettivi ruoli farebbero sospettare. Uomini e donne che combattono “perché sì”: perché si obbedisce agli ordini, perché si è fedeli alla causa. Ma il caos confonde tutto: verità e menzogna, giusto e sbagliato, amor di patria e vendette personali, e conta solo vincere la prossima battaglia, fingendo di sapere che nessuno vincerà mai la guerra.

Dentro il thriller – gli agguati, le sparatorie e le esplosioni – c’è uno spaccato di vita che nessun articolo di giornale, per quanto documentato, può raccontare con altrettanta forza. Ed è per questo che la serie, parlata quasi completamente in arabo, si è conquistata una considerevole audience anche nei paesi arabi, un caso davvero singolare per una fiction israeliana.

Per gli spettatori italiani: la serie è arrivata alla terza stagione. Nella versione italiana sono doppiati solo i dialoghi in ebraico, e quelli in arabo sono sottotitolati. 

Laetitia Eydo è la dottoressa Shirin-El Habed 
(il più bel personaggio delle prime due stagioni)

Shadi Mar'i è Walid. 


 

lunedì 9 marzo 2020

NOBODY KNOWS ANYTHING

Nel suo fondamentale Adventures in the Screen Trade, lo sceneggiatore William Goldman (Butch Cassidy, Misery, Potere assoluto) avverte che in fatto di cinema Nobody knows anything. Tradotto liberamente, "nessuno conosce davvero alcunché". E questa storia (raccontata in un altro libro fondamentale per i cinefili, Easy Riders Raging Bulls, di Peter Biskind) lo dimostra matematicamente.


Il giovane regista è nervoso. Sta per mostrare un premontaggio del suo film ai suoi amici e colleghi più fidati, anche loro registi e sceneggiatori, e al produttore. Di quel ristretto gruppo manca solo una persona, un regista che ha dato forfait all’ultimo momento. Anni dopo, spiegherà così il suo rifiuto di sbirciare in anteprima il lavoro dell’amico: “La realtà è che non vuoi vedere un film che sai migliore del tuo. E anche se i tuoi amici più cari dicono che è il tuo a essere migliore, tu sai che non è così”.

La proiezione comincia. Il regista aspetta ansiosamente l’opinione dei suoi amici, e soprattutto quella del produttore. Sta lavorando a quel progetto da cinque anni. Grazie al successo del suo film precedente, è riuscito a rinegoziare il contratto e ad assicurarsi diritti sulla colonna sonora, sui sequel e sull’eventuale merchandising. È stato accontentato senza problemi. Ridicolo pensare che ci siano sequel, e il merchandising richiede troppo tempo per uscire sul mercato e sfruttare la risonanza di un film.

“Voglio fare un film Disney”. Il regista lo ha detto e ridetto agli amici senza troppi giri di parole. Ha fatto tutti i conti. L’incasso medio di una pellicola Disney è di 16 milioni di dollari. Lui sa che gli ci vorrà un budget di 10 milioni di dollari. La casa di produzione gliene ha concessi 8 e mezzo, ma lui ha voluto cercare di persona i finanziatori. Conta sempre su un budget di 10, e conta di ricavare alla fine un utile di almeno 6 milioni di dollari.

Se il film andrà bene, s’intende. Ed è un grosso “se”. Perché ora, a vedere questo primo, rozzo montaggio, il lavoro sembra denunciare grosse pecche. Gli attori, giovanissimi, sono poco espressivi, e forse non per colpa loro. Forse aveva ragione l’attore che gli aveva detto: “Puoi anche scrivere questi dialoghi, ma ti assicuro che non si possono recitare”. E il montaggio è fiacco, privo di tensione. La moglie del regista, che aveva cominciato a lavorarci, ha poi abbandonato il progetto per andare a lavorare al film di un amico. Ora però anche lei è lì. E appena la proiezione termina, seguita dall’imbarazzato silenzio dei presenti, scoppia a piangere.

“E’ orrendo”, dice tra le lacrime.

Uno degli amici, regista anche lui, demolisce il film, definendolo un pastrocchio incomprensibile e perfino ridicolo. Gli amici sceneggiatori tacciono imbarazzati, non osando esternare quello che pensano. Il produttore, che aveva dato totale fiducia al giovane talento, è una statua di sale.

Solo uno dei presenti – il più giovane della compagnia – ha un’altra opinione. E dice tranquillamente: “Questo film farà cento milioni di dollari”. Lo guardano tutti come se fosse impazzito. Se voleva consolare il suo amico, una silenziosa pacca sulla spalla sarebbe stata più sensata.

E invece Steven ha perfettamente ragione a tranquillizzare l’amico George: Guerre Stellari li farà, cento milioni di dollari. In soli tre mesi.

Nobody knows anything. 

Forse Martin Scorsese aveva avuto un po’ di coda di paglia nel defilarsi dall’anteprima del film di Lucas. Dopotutto, Scorsese aveva scippato a Lucas la moglie Marcia per farsi montare New York, New York. Che sarà un clamoroso flop, nonostante due star come De Niro e Liza Minnelli. Tra i “danni collaterali” del successo di Guerre Stellari ci sarà l’affondamento ai botteghini di Sorcerer di William Friedkin, sontuoso e incompreso remake del Salario della Paura di Clouzot: un fiasco che oscurerà la carriera del regista dell’Esorcista. Brian De Palma continuerà a dirigere con alterne fortune, alternando flop a successi: nessuno di questi ultimi, però, raggiungerà mai le dimensioni del film dell’amico George, che lui aveva così brutalmente stroncato.