Mi chiedo se qualcuno si è accorto della curiosa analogia tra Jeffrey “Drugo” Lebowski e un altro grande personaggio cinematografico degli anni novanta, Forrest Gump.
In Forrest Gump una piuma rappresenta metaforicamente la soavità e il candore di Forrest, che non domina il corso degli eventi, ma si limita a lasciarsene trasportare. The Big Lebowski comincia con un tumbleweed, un cespuglio di salsola che rotola in preda al vento capriccioso. E Drugo è altrettanto sballottato, travolto metaforicamente dagli eventi e letteralmente dalle persone (perfino il suo primo incontro con Maude Lebowski è quasi uno scontro).
Come Forrest, Drugo è l’esatta antitesi dell’eroe artefice del proprio destino. Solo che il primo alla fine del percorso avrà la sua ricompensa, mentre per il secondo non c’è niente da vincere. Al massimo, un torneo di bowling. Per Forrest “la vita è una scatola di cioccolatini, e non sai mai quello che ti capita”. Per Drugo la morale - enunciata dall’enigmatico e un po’ svanito cowboy/narratore - è che “a volte sei tu che mangi l’orso, a volte è l’orso che mangia te”.
The Big Lebowski, nella filmografia dei Coen, arriva dopo quel capolavoro algido (in tutti i sensi) che è Fargo. Comprensibile, quindi, che i due fratelli abbiano cercato un tono più “leggero”. The Big Lebowski è come una sorta di balletto, supportato da un’incantevole colonna sonora. E la dichiarazione d’intenti è già nella sequenza dei titoli: una partita a bowling sapientemente coreografata sulle note di The Man in Me di Bob Dylan. L’immagine del balletto ricorre poi non solo nei sogni allucinati del protagonista, ma anche nella digressione narrativa (superflua ai fini del plot) relativa al padrone di casa di Drugo.
Forse per la sua programmatica leggerezza, negli USA The Big Lebowski non è piaciuto. I critici hanno stigmatizzato la presunta “incompiutezza” del film, che rigira in chiave grottesca un plot chandleriano. Hanno criticato anche lo “spreco” del personaggio di John Turturro (Jesus, un bowler latino pedofilo e strafottente) e perfino l’assegnazione di un ruolo di secondo piano, quello del candido Donnie, al bravo Steve Buscemi. Ma in realtà l’intrigo non è sconclusionato come appare, e la logica narrativa è rispettata, sia pure in uno schema farsesco. E se qualche ragione può averla chi vorrebbe assistere alla partita di Drugo con Jesus, il ruolo di Buscemi è solo in apparenza “minore”. Anzi: Donnie è il silenzioso baricentro del terzetto costituito con Drugo e Walt (l’immancabile, strepitoso John Goodman), e sotto il profilo dell’umanità dei personaggi Lebowski si dimostra forse il film più “caldo” dei Coen.
Girato in maniera classica, con scene lunghe e pochi stacchi (e un notevole impegno per gli attori), il film è dominato dalla maschera sorniona di Jeff Bridges-Drugo. Con lui, per la prima volta, i Coen ci offrono un protagonista che suscita la nostra simpatia. Ma è notevole anche il lavoro di caratterizzazione su Goodman/Walt, che nasconde sotto la scorza sanguigna una umanissima fragilità. Non fate caso all’epilogo del film, che serve solo per chiudere il cerchio à la Coen, con una nota beffarda di metacinema. Il vero finale della storia è la lunga scena sulla scogliera, che si chiude con un abbraccio.
Merita una seconda visione, The Big Lebowski. Se non altro per scoprire nell’universo dei “cinici” Coen - nascosta tra gag e funamboliche digressioni - una insospettabile vena di tenerezza.