lunedì 8 giugno 2015

MY BACK PAGES: SAIGON (NICK RAIDER n. 33)

Non so quanti lettori, oggi, ricordino una serie bonelliana chiamata Nick Raider. Io la ricordo bene, e con particolare affetto. Fu su quella serie che debuttai come sceneggiatore "single", senza Serra e Vigna. Il mio primo, vero lavoro regolare: collaborai assiduamente a Nick Raider per due anni, finché non ci fu approvato il progetto di Nathan Never. Nel mio sito c'era una sezione che avevo intitolato My Back Pages, dove raccontavo i "dietro le quinte" delle mie storie più vecchie. Nei primi anni duemila - non ho trovato traccia della data esatta - scrissi questo "amarcord" relativo alla realizzazione di Saigon.


Benedetto sia il videoregistratore: nel 1990 mi permise di rivedere due film che avevo visto al cinema negli anni della mia adolescenza: Il cacciatore e Apocalypse Now. Non che il Vietnam mancasse dal grande schermo: alla fine degli anni ottanta il Vietnam era stato ampiamente sdoganato. Nel 1986 uscì Platoon di Oliver Stone, poi arrivò Full Metal Jacket di Kubrick (1987), Hamburger Hill di John Irvin, e, nel 1988, Saigon, scritto da Christopher Crowe e interpretato da Willem Dafoe, Gregory Hynes e Fred Ward. Solo che quest'ultimo non era esattamente un film bellico, bensì un vero e proprio poliziesco sullo sfondo di quella guerra.

Mi sarebbe piaciuto molto scrivere una storia del genere. Non potevo farlo su Nathan Never (allora ai primi vagiti). Forse su Martin Mystére, anche se il Vietnam non si prestava certo al tono ironico della serie di Castelli... però c'era anche Nick Raider, che era una serie poliziesca a tutti gli effetti.

Forse si poteva fornire a Nick Raider un passato da reduce... sarebbe stato interessante. Ma i conti non tornavano: ammettendo che Nick Raider avesse trentacinque anni nel 1990, allora doveva essere nato nel 1955. E perciò nel 1975, quando l'esercito americano lasciò definitivamente il Vietnam, doveva averne appena venti. Quindi non poteva avere preso parte al conflitto vero e proprio, che divampò alla fine degli anni sessanta. Ne parlai con Renato Queirolo, il supervisore della serie, e alla fine raggiungemmo un compromesso ragionevole: si poteva aumentare un po' l'età di Nick (senza specificarla al lettore) e ambientare la storia nel 1971. In tal caso, il nostro detective poteva benissimo essere in Vietnam come recluta.

Il primo problema era risolto. Il secondo, però, era trovare un'idea di partenza che non si limitasse a uno spunto estemporaneo per far partire il flashback, del tipo "A proposito, Marvin, ti ho raccontato di quando ero in Vietnam?". L'ideale era trovare un filo rosso tra passato e presente... magari un delitto che affondasse le sue radici nascoste in un lontano passato, una storia che si pensava finita vent'anni prima...

Non ricordo se fu proprio Renato a parlarmi di un film che presentava delle analogie con la trama del Saigon di Crowe: La notte dei generali, un giallo a sfondo bellico con Peter O'Toole, ambientato però durante la seconda guerra mondiale. Vidi anche quel film, e a quel punto, con un ricchissimo background alle spalle, stesi finalmente il soggetto.

Appena Renato lo lesse, mi telefonò sconcertato: "Ma tu non sai niente del Vietnam!".
Tenete a mente che in quegli anni stavo scrivendo le mie prime sceneggiature da solo (le prime le avevo scritte con Serra & Vigna): ero uno sceneggiatore implume. E al rimprovero di Renato ebbi una reazione di fastidio: non ne sapevo niente? Diamine, ma se da mesi non facevo altro che guardare film sul Vietnam!

Con molta pazienza (il che, trattandosi di Renato, è incredibile) il mio supervisore mi disse che avrei fatto meglio a leggermi un libro di storia, anziché guardare film.


Con la coda metaforicamente fra le gambe, mi sciroppai tutta (e dico proprio tutta) l'enciclopedia a dispense The 'Nam, e scrissi la sceneggiatura, non senza il timore di prendere "toppate" clamorose.

Credo di non averne preso, se non per comprensibili "licenze avventurose". Mi sembra che il plot poliziesco (con le piccole licenze di cui sopra) si regga in piedi, e che lo sfondo storico sia stato rispettato. Ricordo perfettamente che utilizzai lo stop di fotogramma del videoregistratore per studiare le mostrine dei gradi. In qualche caso le copiai addirittura per inviarle al disegnatore.

Sarò sincero: non credo che oggi avrei le energie per rifare una cosa del genere. O, quantomeno, mi farei pagare il doppio, e in anticipo.

Come spesso accade quando ci si documenta, il 95% delle conoscenze acquisite restano fuori da quello che hai scritto alla fine, e Saigon non fece eccezione. Per esempio, non trovai il modo di infilare nei dialoghi l'espressione che nel Vietnam indicava le perdite umane: waste, letteralmente "spreco", e mai parola fu più azzeccata per descrivere quel macello.

In ogni modo, riuscii a infilare nella storia altri dettagli realistici, come qualche termine militare, o la rivista Grunt che circolava fra le truppe. E saccheggiai ugualmente i film che avevo visto utilizzandone i nomi dei registi (Stone, Cimino) e dei personaggi (Kilgore, Kurtz, Barnes, etc.). Un'alluvione di citazioni che oggi non farei, nemmeno se mi pagassero il doppio in anticipo.

Nella sceneggiatura trovai il modo di usare per fini narrativi lo spartiacque della guerra, cioè il primo ritiro di truppe americane, nel 1971. Usai anche una sorta di “colonna sonora”, inserendo nel fumetto, di straforo, alcune canzoni di quegli anni. Satisfaction degli Stones era citata quasi come esempio di pop (la esegue un cantante vietnamita in un locale), mentre era più “mirata” la citazione di altre due canzoni, Ohio di Neil Young e Move Over della magnifica Janis Joplin. Ohio parlava dei disordini accaduti alla Kent University dell’Ohio nel 1970: durante una protesta studentesca contro l’intervento nel Vietnam, i soldati della guardia nazionale spararono sui giovanissimi dimostranti, uccidendo quattro di loro (1). Un verso della canzone parla dei "soldatini di latta di Nixon", e lo infilai nel fumetto. Allo stesso modo usai un verso della Joplin, "Tu dici che è finita, baby, tu dici che adesso è finita", inserendolo nella scena in cui Nick apprende che il ritiro dal Vietnam è cominciato.

Oggi che registi come Oliver Stone, che la guerra la visse in prima persona, hanno raccontato quel periodo, molte cose che un tempo erano verità scomode da occultare (l'eccidio di My Lai, l'uso criminale del defoliante Agent Orange, le sofferenze fisiche e psicologiche dei reduci) sono fatti acclarati.

Magari un po' meno acclarate sono le sofferenze patite dai civili vietnamiti per mano delle truppe di Ho Chi Minh (guardatevi Tra cielo e terra dello stesso Stone). Ma, comunque la si consideri, quella del "'Nam" è un'ombra lunga che arriva fino ai giorni nostri. A quasi vent'anni di distanza, sembra impossibile "storicizzare" quella guerra. Parlarne, in qualsiasi modo, significa prendere una posizione. E, di riflesso, spingere chi ti ascolta (o ti legge) a fare altrettanto.
Ma, a differenza di Renato Queirolo, che, parole sue, nel 1968 segnava "l'avanzata di Ho Chi Minh sulla cartina con delle bandierine rosse" e scendeva in piazza a gridare Yankee Go Home, io non avevo prese di posizione da sostenere in merito al Vietnam.
Perciò Renato gongolò nel leggere la scena di pag. 64, che richiamava l'atroce episodio di My Lai. Ma protestò per la battuta di dialogo sui vietcong che tagliavano le braccia ai bambini vaccinati dagli americani (ripresa dal monologo di Marlon Brando/Kurtz in Apocalypse Now). Disse che i vietcong non facevano cose del genere. Risposi che a) molti prigionieri americani avrebbero avuto da obiettare, e che b) la battuta serviva ai fini del discorso del generale. Potevo sostituire il dettaglio dei braccini tagliati con un’altra efferatezza inventata, ma non avrei cambiato il senso della battuta. A questo punto Renato lasciò la battuta, ma ritoccò la risposta di Nick Raider, facendogli esclamare un "Balle!" che nella mia sceneggiatura non c'era.

In realtà la discussione più accanita con Renato non l'ebbi per motivi "politici", ma riguardo al finale della storia. Nella mia sceneggiatura l'assassino, smascherato da Nick, si gettava dal tetto della caserma e cadeva, infilzandosi come un pollo allo spiedo, sul pennone della bandiera. Poetic justice, secondo me: la giusta fine per chi aveva metaforicamente sporcato quella stessa bandiera.

Renato trovò la scena tutt'altro che poetica, ma "orribile e schifosa" (testuale) e mi impose di modificare il finale. L'assassino doveva essere arrestato. Protestai vivacemente: una storia così drammatica non poteva finire con l'arresto del colpevole, sarebbe stato finire con un "puff" ciò che era cominciato con un "bang". Un ammosciamento, insomma.

Renato fu irremovibile, e così riscrissi il finale con l'arresto del colpevole... ma dopo una scena di tensione che, secondo me, funzionava molto meglio dell'infilzamento. Cosa di cui sarò sempre grato al mio severo supervisore.

Non finisce qui. Fu per Saigon, uscita nel febbraio 1991 come albo n. 33 di Nick Raider, che ricevetti la mia prima lettera personale da un lettore, indirizzata a "Michele Medda, c/o Sergio Bonelli Editore". Come d'uso, la redazione me la mandò a casa senza aprirla. La scartai ansiosamente. La mia prima lettera di complimenti!

La lettera era scritta a matita (!) su un foglio stropicciato, con una grafia infantile. E diceva, parola più parola meno: "Ho letto la tua storia Saigon, e fa cagare."
Seguiva una parolaccia.

Mittente anonimo, naturalmente. Non ricevetti altre lettere su Saigon. Solo un lettore scrisse, tempo dopo, a Posta gialla, la rubrica della posta dell'albo. Per parlare della storia? No. Si lamentò che "nel n.33 l'autore parteggiava smaccatamente per i viet-cong."

Tanti sforzi per un così miserabile risultato. Sia pure su scala di uno a un milione, una perfetta metafora del Vietnam. Medda, go home.

AGGIORNAMENTO 2015

1) All'epoca non potevo certo prevedere che quasi vent'anni dopo avrei raccontato la strage di Kent State in un albo di Caravan.