martedì 23 agosto 2022

"SAPER DISEGNARE" NON BASTA


"Il disegnatore di fumetti... si nasce così o lo si diventa? Il disegnatore è un artista? Un bohémien? Un masochista? Un cretino? I fumetti si fanno a mano o a macchina?" . Nella vignetta di Los Profesionales di Carlos Gimenez, gli interrogativi di un mestiere di cui nessuno conosce realmente i segreti. Nemmeno chi lo fa.

 

Giacomo (nome di fantasia) era (ed è ancora) un disegnatore tanto bravo quanto lento. Quando un disegnatore faceva mediamente una ventina di tavole al mese, lui ne faceva quattro o cinque. Tavole ricchissime e zeppe di dettagli, molto belle a vedersi... ma affidare una storia a Giacomo significava aspettare l’arrivo dell’esercito nemico alla fortezza Bastiani. Nell’attesa si consumava una vita. 

Al curatore, che lo sollecitava ad accelerare, Giacomo rispondeva: “Il problema è che ho un segno ricco”. “Certo, perché fai migliaia di righine e di trattini sottilissimi, che oltretutto non vengono fuori in stampa.” “Ma quello è il mio stile”. È il mio stile è la magica formula che secondo i disegnatori vanifica qualsiasi obiezione. “Scusa, non vedi che qui il personaggio ha la testa troppo piccola?” “È il mio stile”. “Hai messo una secchiata di neri in questa vignetta, non si capisce che cosa succede!” “È il mio stile”. “È il mio stile” significa in sostanza: “Non so proprio di che cosa stai parlando, non riesco a focalizzare il problema e dunque non ho la minima idea di come risolverlo. E come non puoi vuotare l’oceano né invertire la legge di gravità e far cadere una mela al di sopra dell’albero, non puoi cambiare il mio modo di disegnare.” 

A questo punto puoi solo allargare le braccia e sperare che a smuovere il disegnatore provveda l’Onnipotente: magari facendo in modo che la moglie gli regali due gemelli, o che gli vada a fuoco la casa e che l’assicurazione non paghi, lasciandolo al verde e in disperato bisogno di liquidità. Mentre aspettavi questo miracolo, però, la sola cosa da fare era tenere la storia di Giacomo fuori dalla programmazione e mettere accanto al titolo di lavorazione un asterisco che significava “uscirà quando sarà pronta”. 

E poi successe: venne il giorno fatale in cui a Giacomo fu affidato un albo che, per motivi di programmazione, doveva assolutamente uscire entro una certa data. La storia fu inserita in scaletta e le fu assegnata una data d’uscita. Questa volta Giacomo avrebbe dovuto marciare di buon passo e rispettare la consegna. “Non preoccupatevi - disse Giacomo - Ho trovato un nuovo stile che mi consente di andare veloce”. Era vero... a metà: Giacomo ora aveva un segno che, se non proprio sintetico, risultava indubbiamente meno “carico”. 

Il problema era l’altra metà dell’affermazione. Dopo uno sprint alla partenza, Giacomo rallentò la produzione fino a tornare ai soliti ritmi. All’avvicinarsi della data di consegna fu chiaro che non avrebbe ultimato la storia in tempo utile. A questo punto il curatore ricorse alla minaccia più terribile: “Se non consegni entro la scadenza, sarà un altro disegnatore a finire il tuo albo”. In un’ideale scala di calamità per un disegnatore, vedere il proprio albo terminato da altri equivale ad accorgersi che suo figlio assomiglia un po’ troppo all’idraulico. Cioè, è un’onta inaccettabile. Ogni disegnatore, anche l’imbrattafogli più incapace, è convinto di essere un novello Michelangelo. Puoi far completare il suo albo da Magnus redivivo, ma lui non ammetterà mai che la mano altrui sia migliore della sua. Dunque, era ipotizzabile che di fronte a questa minaccia Giacomo consegnasse in tempo. Non ci riuscì. Il suo lavoro fu portato a termine da un altro disegnatore, che imitò perfettamente il suo stile. E nessuno dei lettori si accorse del cambio di mano (a essere sinceri, nemmeno io). 

Sono passati molti anni da allora. Giacomo ha cambiato stile ancora una volta, sempre alla ricerca di quel segno magico che gli consentirà di disegnare almeno quindici o venti tavole al mese. Le sue tavole sono ottime. La sua velocità no. Il problema di molti disegnatori è proprio concentrarsi sul disegno, pensandolo solo in termini “esecutivi”, di abilità manuale. “Saper disegnare” significa fare un disegno “ricco”, iperdettagliato. E dunque, se devo essere veloce, basterà “alleggerire” il segno, giusto? No. Sbagliato. La velocità di esecuzione ha poco o niente a che fare con la quantità di china (o di bite) che finisce sul foglio. 

Perché la velocità non è solo quella della mano. È anche quella del pensiero. Ci sono disegnatori che leggendo la sceneggiatura capiscono all’istante come impostare le vignette. Sanno già che cosa dovranno disegnare, non hanno bisogno di rimuginarci sopra. Questo è un meccanismo inconscio, che scatta nella mente di chi ha letto tonnellate di fumetti e visto centinaia di film. Ma è anche qualcosa che si impara col tempo, è una dote che si può affinare. Perché la pratica conta. Se disegni una cosa dieci volte, alla decima volta la disegnerai più in fretta della prima. Perché sai come si fa, sai come ottimizzare i tempi. Ma neanche questo ti aiuterà a essere più veloce se non riesci a uscire dalla mentalità dilettantesca del “più segni metto, più è bello il disegno”, se non riesci a capire che nel fumetto il disegno non è tutto.

Per finire, ecco due esempi di disegnatori agli antipodi nel segno, ma ugualmente veloci. 

Una tavola di Roberto De Angelis, dalla storia Infiniti universi (Nathan Never n. 120). Col suo stile plastico e tutt’altro che sintetico, De Angelis riusciva a realizzare anche venti tavole al mese. Un giorno si recò in redazione per la solita consegna. Per motivi di continuità della serie gli furono richieste corpose modifiche in diverse tavole, e gli fu chiesto di quanti giorni avesse bisogno per il lavoro. “Ma no, lo faccio ora”, disse lui. Si sedette a un tavolo e realizzò tutte le modifiche in mattinata, sotto gli occhi increduli dei presenti.

 

Una tavola di Stefano Casini dalla storia I combattenti dell’isola (Nathan Never n. 352). Noterete che in questa tavola non ci sono sfondi. Il segno è essenziale e i tratteggi sono minimi. La profondità di campo è data dal taglio dinamico delle inquadrature e dall’uso sapiente dei neri compatti. L’economia nel segno non si risolve in una tavola “povera”. Oltre a un grande controllo sul tratto, tavole come questa rivelano una estrema lucidità nell’approccio. Il disegnatore ha fin dal primo momento un’idea chiara di che cosa disegnare e che cosa tralasciare.


domenica 21 agosto 2022

LA LEGGENDA DEL REGISTA SULL'OCEANO

 

La carriera del regista Wolfgang Petersen, recentemente scomparso, costituisce un curioso caso cinematografico: è nettamente divisa in due, tra la Germania e l’America. In patria Petersen lavorò su progetti personali, originali e perfino audaci, arrivando poi a realizzare due film che avrebbero conseguito lo status di classico: U-Boot 96 e La storia infinita. Il Petersen “americano”, invece, avrebbe diretto film ancora più popolari, ma rigorosamente confinati dentro la formula del blockbuster.

La gavetta di Petersen è simile a quella di tanti registi degli anni Sessanta: cortometraggi e film tv, soprattutto thriller. Il suo primo lungometraggio per il grande schermo (non proprio lungo: 55 minuti) è Ich werde dich töten, Wolf (Ti ucciderò, Wolf, 1971). Una storia tipicamente noir dalle atmosfere hitchcockiane, con la coppia di amanti che trama per uccidere la moglie di lui. Una produzione low budget, ovviamente, che Petersen scrive e dirige. L’interprete femminile è Ursula Sieg, all’epoca sua moglie.

 Una scena di Ich werde dich töten, Wolf

(Immagine tratta dal sito cinema.de)

Einer von uns beiden (Uno di noi due, 1974), invece, è un lungometraggio “vero”, un thriller con Klaus Schwarzkopf e Jurgen Prochnow (poi protagonista principale di U-Boot 96): un ex studente squattrinato scopre che un accademico si è appropriato di un lavoro altrui, e gli chiede soldi in cambio del proprio silenzio. Ma il professore non è disposto a cedere, è in gioco la sua carriera e anche il suo matrimonio. Il giovane ricattatore, da canto suo, ha solo questa chance per sfuggire a una vita squallida. Il film ha buoni riscontri di critica, tanto che la Germania lo propone agli Oscar per la categoria “miglior film in lingua straniera”. Non ottiene la nomination, ma regala comunque una soddisfazione al regista, poco più che trentenne.

A questa pellicola seguono vari lavori televisivi, tra cui sei episodi della celeberrima serie Tatort. E poi arriva Die Konsequenz (La conseguenza, 1977), scritto dallo stesso Petersen e tratto da un libro dello scrittore svizzero Alexander Ziegler (che ha anche una parte nel film): Martin, detenuto per avere avuto rapporti sessuali con un minore, mette in scena una commedia con altri carcerati. Cerca un attore giovane per una parte, e si fa avanti il giovane Thomas. Peccato che Thomas sia figlio di un secondino. E quando intreccia una relazione con Martin cominciano i guai. Girato in bianco e nero, il film ha di nuovo tra i protagonisti Jurgen Prochnow. È anche distribuito negli USA, ma il mancato visto di censura da parte della MPAA ne limita la circolazione. 

Ernst Hannawald e Jurgen Prochnow in Die Konsequenz

Il film successivo di Petersen è per la tv, ed è Nero e bianco come giorno e notte (Schwarz und weiß wie Tage und Nächt, 1978). Lo citiamo in questo elenco non solo per la peculiarità della sua trama, ma anche perché negli anni Ottanta, grazie al successo della Storia infinita, il film ha una distribuzione cinematografica fuori dalla Germania, arrivando anche in Italia. Il bianco e nero del titolo è quello degli scacchi: un ingegnere informatico, Thomas (Bruno Ganz) è incaricato di programmare un computer per giocare a scacchi. Quando il computer perde contro il russo Koruga, campione del mondo, per Thomas la rivincita diventa un’ossessione. Non si darà pace fino a quando non avrà battuto Koruga. Probabilmente Petersen è il primo regista a usare il gioco degli scacchi come motore della vicenda e non come elemento scenografico. E sicuramente è l’unico a rappresentarlo come una dipendenza autodistruttiva. 

 Bruno Ganz in Nero e bianco come giorno e notte

 
Dopo Nero e bianco arriva la svolta, il film che cambia la vita (e la carriera) del regista. Scritto dallo stesso Petersen e ancora una volta con Jurgen Prochnow a guidare il cast, U-Boot 96 (Das Boot, 1981) racconta la pericolosa missione di un sommergibile tedesco nel pieno della seconda guerra mondiale. Con il suo impressionante realismo e una tensione claustrofobica da tagliare a fette, il film è un grande successo in Germania e ottiene ben sei candidature agli Oscar. Nessuna di queste si concretizzerà in un premio, ma poco importa: la strada è spianata, in patria Petersen ha credito sufficiente per scegliersi il più ambizioso dei progetti. E decide di portare sullo schermo un libro per bambini, La storia infinita di Michael Ende. L’operazione si rivela difficile da subito: non solo per la quantità e la complessità di effetti speciali per cui i Bavaria Studios non sono particolarmente attrezzati, ma anche per la drastica operazione di riduzione e semplificazione del complesso testo di Ende; che da canto suo non la prende affatto bene, al punto da ritirare il suo nome dai credits della pellicola. Ma la fatica è abbondantemente ripagata. La storia infinita (1984) diventa un successo internazionale e avrà anche due seguiti, anche se con registi e attori diversi. Ma intanto Petersen ha già metaforicamente messo piede a Hollywood: durante la post-produzione della Storia infinita è stato contattato dalla 20th Century Fox, che ha un grosso problema.

Il problema è un film di fantascienza dal titolo Il mio nemico (Enemy mine, 1985) ed è tratto da un racconto lungo di Barry B. Longyear, vincitore del prestigioso premio Nebula: due soldati nemici, un umano (Dennis Quaid) e un alieno di razza Drac (Louis Gossett jr.), precipitano su un pianeta ostile e imparano a unire le forze per superare le avversità. Il plot cinematografico – opera di Edward Khmara, lo sceneggiatore di un altro classico dell’avventura anni Ottanta, Ladyhawke – riconduce il racconto originale nei binari dell’avventura più tradizionale, mettendo contro i due naufraghi spaziali una banda di fuorilegge (umani) che hanno schiavizzato i Drac per scavare le miniere del pianeta. Alla Fox hanno affidato il film al regista inglese Richard Loncraine, ma non sono per niente soddisfatti. Trovano il girato di Loncraine semplicemente disastroso. Ora la scelta è tra fermare la produzione e cestinare il progetto subito, limitando le perdite, e cercare un altro regista. Gli studios scelgono la seconda opzione e si rivolgono a Petersen, che accetta dopo qualche titubanza. Petersen fa spostare il set da Budapest a Monaco, trova nuove location per gli esterni, rigira tutte le scene realizzate da Loncraine e impacchetta il film nei tempi e nel budget previsto. Non basterà. Costato più di 40 milioni di dollari, il film fallisce al botteghino. Ma per Petersen è un’esperienza fruttuosa. Ha dimostrato di essere un regista creativo, preciso e affidabile. E riesce a piazzare un proprio progetto negli USA.


Dennis Quaid e Louis Gossett jr in Il mio nemico

Prova schiacciante (Shattered, 1991) rappresenta per il regista un ritorno al thriller e una pausa dagli effetti speciali: Tom Berenger è Dan Merrick, un uomo colpito da amnesia, che cerca di ricostruire faticosamente il puzzle del suo passato. Il film offre una “sorpresa” finale non esattamente imprevedibile (e neppure molto plausibile), e il riscontro dei botteghini è a dir poco tiepido. Ben diversa accoglienza avrà Nel centro del mirino (In the line of fire, 1993). Clint Eastwood è un agente FBI alle prese con uno psicopatico (John Malkovich), che ha giurato di uccidere il presidente degli Stati Uniti. È la seconda svolta per la carriera di Petersen, che con questo film si dimostra più “hollywoodiano” dei registi americani, inappuntabile nel confezionare filmoni ad alto tasso spettacolare, rispettando i tempi, il budget e le idiosincrasie di attori superstar. Oltre ai citati Eastwood e Malkovich, nei decenni seguenti si troverà a dirigere Dustin Hoffman con Morgan Freeman, Rene Russo e Kevin Spacey; Harrison Ford con Gary Oldman e Glenn Close; George Clooney con Mark Wahlberg e John C. Reilly; Brad Pitt con Eric Bana, Orlando Bloom e Peter O’Toole. I titoli li ricordiamo tutti: Virus letale (Outbreak, 1995), Air Force One (1997), La tempesta perfetta (The Perfect Storm, 2000), Troy (2004) e infine Poseidon (2006). 

Tutte pellicole dalla confezione impeccabile, con una particolare attenzione al ritmo e alla recitazione (aiutata, probabilmente, anche dal contributo del regista alle sceneggiature). Pur lavorando sempre a grandi produzioni, Petersen affronta generi diversi: il thriller, l’action-movie, il film catastrofico, e riesce addirittura a riportare in vita il peplum col godibilissimo Troy. Ma sembra avere lasciato in Europa l’indiscutibile originalità del suo sguardo. Mette tutto il suo talento al servizio della storia e del piacere dello spettatore, punta al bersaglio grosso e lo centra senza ricamarci intorno.

Eric Bana è Ettore in Troy 

Per ironia della sorte, la fortuna di Petersen, cominciata nel 1981 con un film ambientato sull’oceano, termina con un altro film ambientato sull’oceano: Poseidon è accolto malissimo da critica e pubblico, e affonda non solo sullo schermo, ma anche metaforicamente, ai botteghini. Davvero un peccato. Perché il precedente film “oceanico” del regista, La tempesta perfetta, era stata forse la sua migliore prova “americana” in assoluto, una storia à la Jack London sulla lotta impari tra Uomo e Natura. 

La tempesta perfetta

Senza più lavoro negli USA, Petersen realizzerà il suo ultimo film nella nativa Germania, ben dieci anni dopo PoseidonE sarà per lui un ritorno alle origini: un remake per il grande schermo di un suo film tv di quarant’anni prima, una crime comedy dal titolo Vier gegen die bank (Quattro contro la banca, 2016). Benché ambientato in Germania, il film è tratto da un romanzo americano, The Nixon Recession Caper, di Ralph Maloney. Una ideale chiusura del cerchio, suggello simbolico di una carriera divisa tra due continenti. 


 

 

martedì 9 agosto 2022

LA CROCE DI FERRO

 


1943, fronte russo, penisola di Taman: le truppe della Wehrmacht si ritirano. Il sergente Steiner (James Coburn) riesce a riportare indietro il suo plotone dopo un’incursione dietro le linee nemiche. Il colonnello Brandt (James Mason) sa che può contare su Steiner perché la ritirata non si trasformi in una fuga disastrosa, ma l’arrivo dell’ambizioso capitano Stransky (Maximilian Schell) complica le cose. Stransky infatti vuole guadagnarsi a ogni costo la Croce di Ferro con una vittoria. E Steiner e i suoi – che aspirano semplicemente a salvare la pelle – per lui sono un ostacolo...

Con La croce di ferro Sam Peckinpah (insieme agli sceneggiatori Kelley e Hamilton) riscrive a modo suo il film di guerra, partendo dal romanzo di Willi Heinrich La carne paziente. E lo fa fin dai titoli di testa, alternando immagini tratte da cinegiornali ad altre scattate su vari fronti al suono di Hanschen Klein, una canzoncina per bambini: il piccolo Hans va via di casa da piccolo e torna uomo, così cambiato che solo sua madre può riconoscerlo.

La rappresentazione del caos della guerra offerta da Peckinpah risulta ben diversa da quella del coevo Quell’ultimo ponte, in quanto priva di qualsiasi intento moraleggiante. E non solo perché i suoi protagonisti combattono dalla parte sbagliata della storia, quella nazista, ma perché è impossibile rivestire di un senso il massacro in cui essi alternano il ruolo di carnefici a quello di vittime. La guerra non è l’avanzata vittoriosa presentata dai cinegiornali di propaganda: è un inferno di esplosioni, schianti, boati e corpi che saltano via in pezzi nel fango e nella neve. 

 

A corto di viveri e di equipaggiamento, in lotta con le pulci e con la dissenteria non meno che col nemico russo, la carne dei soldati è “paziente”, nel senso che sopporta ogni cosa in attesa che si compia il proprio destino. Perso ogni riferimento morale e sociale, non resta che ridefinire personalmente poche e fragili coordinate etiche: salvare la vita – trasgredendo gli ordini ricevuti – a un ragazzino russo, placare il compagno in preda a una crisi di nervi, consegnare uno stupratore alla meritata punizione. Non si può fare molto di più: questo “mucchio selvaggio” non ha alcuna possibilità di riscatto collettivo, e la sorte migliore a cui possa aspirare è incassare la sconfitta definitiva in patria, e non tra i boschi innevati dall’inverno russo. 

Quella del gruppo è l’unica coesione possibile in un universo disintegrato: quando il colonnello Brandt chiede a Steiner di sbugiardare il pavido Stransky, che asserisce di avere guidato il contrattacco, Steiner non parla. E a Brandt, che sa la verità e non capisce il suo silenzio, risponde “Io odio tutti gli ufficiali”. Steiner sente di non dovere nessuna fedeltà agli ufficiali e alla classe che essi rappresentano (che sia costituita da nazisti è incidentale), e non combatte per nessuna causa che non sia la sopravvivenza. L’unico dovere che sente è quello nei confronti dei suoi uomini. Che infatti non abbandona al loro destino, anche quando potrebbe restare nell’ospedale dove sta guarendo dalle ferite, confortato dalla bella infermiera Eva. Come Dutch ricorda a Pike nel Mucchio Selvaggio: “Non è la tua parola che conta, conta a chi l’hai data”. Il plotone è partito unito e unito tornerà, sia pure per finire con l’affrontare, a pochi passi dalla salvezza, il “fuoco amico” delle proprie trincee. 

Se è scontato che in questa apocalisse non ci sia spazio per il sentimentalismo, resta poco spazio anche per i sentimenti. E anzi, proprio quando la sceneggiatura tenta qualche affondo “psicologico” (come quando Steiner/Coburn dice al ragazzino russo “Non ti posso tenere qui: tu mi fai pensare, e fai pensare gli altri. E qui non dobbiamo pensare”), l’impianto realistico scricchiola, o è infranto volutamente dallo stesso regista nella scena allucinata e grottesca di Steiner ricoverato all’ospedale militare.

Pellicola dalla lavorazione infelice, minata dall’inesperienza del produttore e dalle intemperanze dello stesso regista, La croce di ferro non arriva ai vertici del capolavoro. Eppure è difficile trovare, nella sterminata filmografia del genere bellico, una rappresentazione così spietatamente sincera del caos della guerra. Che è poi il caos irredimibile della società che l’ha voluta.

 

LA STORIA DEL FILM

Nel 1975 Sam Peckinpah è riuscito a terminare Killer Elite, uno dei suoi film meno memorabili (che pure si difende bene al botteghino), quando gli viene proposto il progetto della Croce di ferro, tratto dal romanzo La carne paziente, di Willi Heinrich: è la storia di un plotone tedesco che cerca di sopravvivere alla disastrosa ritirata della Wehrmacht dalla Russia. La prima sceneggiatura è firmata da Julius Epstein, ed è un monumento di 160 pagine. Peckinpah, poco convinto, la passa prima a Walt Kelley, e poi all’ex marine Jim Hamilton. Hamilton la definisce “a disjointed piece of work”, ma non c’è tempo per una riscrittura totale, e in un mese fa quello che può per risistemare lo script. È solo il primo dei problemi che funesteranno la lavorazione del film. Peckinpah, che ci dà dentro con alcol e cocaina, arriva subito ai ferri corti col produttore, Wolf Hartwig. 

Hartwig non è proprio un esperto di cinema mainstream: le sue ultime pellicole si intitolano Adolescenza porno, Schiave nell’isola del piacere, Le svedesi lo vogliono così. Insomma, è un piccolo produttore specializzato in film erotici soft-core. Vero è che è un mercante abilissimo, e i nomi del regista e di altri attori coinvolti (James Coburn, James Mason, Maximilan Schell) riescono a fargli avere anticipi dai distributori. Ma il film è impegnativo, il budget richiesto non è indifferente, e a poco serve tagliare i costi girando in Jugoslavia e trascurare “trucco e parrucco” (col risultato di esibire sullo schermo i soldati nazisti più improbabili della storia del cinema). I soldi del primo anticipo finiscono in fretta. E da questo momento comincia un estenuante tira e molla tra produttore e regista. Attori e tecnici vengono retribuiti col contagocce, e devono aspettare la paga anche per intere settimane. Peckinpah arriva al punto di finanziare le riprese di tasca sua pur di non fermare la lavorazione del film. Alla fine ci rimetterà 90.000 dollari. Volenteroso ma inesperto, Hartwig non ha idea di che cosa comporti girare un film di guerra: promette dieci carri armati russi al regista, poi lo implora di accontentarsi di quattro. Alla fine gliene procurerà due... di cui uno non cammina. (Se volete verificare coi vostri occhi, guardate il film con attenzione: salvo una scena di pochi secondi, non ci sono mai due carri in movimento nella stessa inquadratura. Ce n’è sempre uno solo). 

Gli scontri tra il regista e il produttore, di persona o al telefono o per lettera, sono quotidiani. E Peckinpah intanto combatte i suoi demoni personali: in Jugoslavia è impossibile procurarsi cocaina, così il regista compensa la mancanza di droga e dei suoi farmaci, sequestrati alla frontiera, aumentando le dosi di alcol. Finisce per litigare violentemente con sua figlia Sharon, che stava girando un documentario sulle riprese del film. Il risultato è che lei fa le valigie. Anche Frank Kowalski, amico del regista e sceneggiatore di Voglio la testa di Garcia,lo pianta in asso esasperato. La lavorazione del film diventa un incubo, tra l’oggettiva difficoltà di un progetto che prevede complesse scene di battaglia , i ritardi delle paghe e la salute del regista che peggiora sempre più: una infezione alla gamba gli rende impossibile stare in piedi. Lo devono muovere su e giù per il set nel side-car di una moto.

La post-produzione non è meno complicata, anche perché le condizioni di Peckinpah peggiorano visibilmente. A Londra, dove sta lavorando al montaggio, collassa per la terza volta in poche ore mentre attraversa la strada per tornare in albergo. Con lui c’è James Coburn, che gli dà l’ultimatum: “Sam, questa volta non ti aiuto. Ti alzi da solo, domani vieni da me e chiamiamo qualcuno in grado di aiutarti”. Il giorno dopo, Peckinpah bussa alla porta di Coburn. “Sei arrivato quasi troppo tardi”, dice il medico che lo prende in cura. “Sono convinto che (quel medico, ndr) gli abbia allungato la vita di almeno sei anni”, dirà più tardi Coburn. 

Quanto a La croce di ferro, non sarà apprezzato dal pubblico americano, ma si rifarà in Europa, fruttando al regista buoni incassi, buone recensioni e un telegramma di complimenti di Orson Welles. Peckinpah vivrà altri sette turbinosi anni, riuscendo a dirigere solo altri due film, Convoy e Osterman Weekend. Nessuno dei due, a dispetto del buon esito al botteghino, è all’altezza della sua fama. Il suo fisico minato dagli eccessi cede nel 1984. Wolf Hartwig, il produttore, negli anni successivi non produrrà nessun film neanche lontanamente paragonabile a La croce di ferro. Ritiratosi nel 1985, morirà nel 2017, alla bella età di 98 anni. 

  Sam Peckinpah (foto tratta da cinephiliabeyond.org)