sabato 27 novembre 2021

LA NAVE STA ARRIVANDO


When the ship comes in fu incisa da Bob Dylan nel 1963 per il suo terzo album, che prende il titolo da una delle sue canzoni più famose - nonché vero e proprio inno generazionale - The Times They Are A-Changin'. Appena due anni dopo, Highway 61 Revisited siglerà la fine definitiva del Dylan folk e engagé, consacrando il giovane Bob come il primo "poeta da juke-box" (definizione di Allen Ginsberg) e consegnandolo a una fama planetaria. Ma nel 1963 Dylan è allo zenith della sua produzione "politica" legata alla musica folk, e When the ship comes in ne è un perfetto esempio: con toni solenni e quasi da profezia biblica, Dylan immagina l’arrivo di una nave che arriverà da un mare in tempesta, infliggerà agli ingiusti il meritato castigo e annuncerà la nascita di un mondo nuovo. 

Curioso che una composizione del genere abbia avuto una genesi molto prosaica, che Joan Baez raccontò nella sua autobiografia E una voce per cantare.

 

Joan Baez e Bob Dylan negli anni Sessanta

Nel 1963 la Baez, appena ventiduenne e già folkstar con un disco d’oro all’attivo, si era portata appresso in tournée Dylan, allora astro emergente, e durante una tappa andò con lui a fissare due stanze in un albergo. Alla reception le dissero che certamente avevano una stanza per lei, ma non per “il suo amico”. Il problema era che Bob, spiega la Baez, “se lo si guardava con occhio artistico, aveva l’aria di un poeta, ma se lo si guardava con occhio poco avvezzo poteva sembrare un vagabondo”. (Anni dopo, lei stessa lo avrebbe chiamato eloquentemente “the unwashed phenomenon” (il fenomeno non lavato), nella sua struggente Diamonds and rust).   

Risentita, la cantante puntò i piedi e disse al receptionist che lei non avrebbe alloggiato in quell’hotel, a meno che non avessero trovato una stanza anche per Dylan. E a quel punto una stanza libera saltò fuori. Continua la Baez: “Mi scusai con Bob, che però mi rispose che non gliene importava assolutamente niente. Ma quella sera, alla fine del concerto, aveva già scritto un’intera canzone, When Your (sic) ship comes in. Era risentita, vendicativa, forte e lirica.”

Il brano ebbe una certa fortuna: come altri brani del primo Dylan, fu ripreso dal trio Peter, Paul and Mary, dagli Hollies, da Arlo Guthrie e, successivamente, dai Clancy Brothers e dai Pogues. Ed è di questi ultimi la versione che vi propongo, decisamente molto più “mossa” delle ossequiose cover precedenti. 

La traduzione che trovate qua sotto (seguita dal testo originale) è un mio esperimento: ho tentato una traduzione quanto più possibile vicina al testo originale, ma rispettosa della metrica, e quindi cantabile. 

 


LA NAVE STA ARRIVANDO (Bob Dylan)

Sai che l’ora verrà quando il vento cadrà 

e non lo udrai più soffiare 
come calma sul piano prima dell’uragano, 
e la nave andrà a salpare.
 
Poi nell’acqua un turbinio come collera di Dio 
e la sabbia si alza con i venti 
la marea batte le sponde col martello delle onde 
e il mattino affila i denti.  
 
I pesci rideranno e le ali ruberanno 
ai gabbiani per levarsi in volo. 
E perfino le scogliere si alzeranno per vedere 
le bandiere sopra il molo.  
 
Né bugie in televisione né le palle di cannone 
fermeranno questa nave in corsa. 
Le menzogne insieme al piombo delle armi andranno a fondo 
sotto il mare che s’ingrossa.  
 
È un canto in primavera che gonfia quella vela 
e la nave adesso si avvicina. 
C’è un calore incandescente dentro agli occhi della gente 
e niente è come prima.  
 
Nel silenzio dell’attesa la sabbia si è distesa 
e un tappeto d’oro ha srotolato. 
Ricopre l’erba e i sassi e guida i nostri passi 
mentre il mondo è senza fiato. 
 
E il nemico si desta con la confusione in testa 
e dice “Non ci credo, sto sognando”. 
Ma il suo incubo più nero questa volta è tutto vero,
la nave sta arrivando.  

Sanno di essere spacciati e per non essere schiacciati 
in ginocchio abbassano la fronte. 
E la nave entra nel porto mentre un altro sole è sorto 
e un nuovo mondo è all’orizzonte. 
 
WHEN THE SHIP COMES IN

Oh the time will come up when the winds will stop
And the breeze will cease to be breathin’
Like the stillness in the wind ’fore the hurricane begins
The hour when the ship comes in 

Oh the seas will split and the ship will hit
And the sands on the shoreline will be shaking
Then the tide will sound and the waves will pound
And the morning will be breaking

Oh the fishes will laugh as they swim out of the path
And the seagulls they’ll be smiling
And the rocks on the sand will proudly stand
The hour that the ship comes in  

And the words that are used for to get the ship confused
Will not be understood as they’re spoken
For the chains of the sea will have busted in the night
And will be buried at the bottom of the ocean

A song will lift as the mainsail shifts
And the boat drifts on to the shoreline
And the sun will respect every face on the deck
The hour that the ship comes in

Then the sands will roll out a carpet of gold
For your weary toes to be a-touchin’
And the ship’s wise men will remind you once again
That the whole wide world is watchin’

Oh the foes will rise with the sleep still in their eyes
And they’ll jerk from their beds and think they’re dreamin’
But they’ll pinch themselves and squeal and know that it’s for real
The hour that the ship comes in

Then they’ll raise their hands sayin’ “We’ll meet all your demands”
But we’ll shout from the bow  “Your days are numbered”
And like Pharaoh’s tribe they’ll be drowned in the tide
And like Goliath, they’ll be conquered

written by Bob Dylan

Copyright © 1963, 1964 by Warner Bros. Inc.; renewed 1991, 1992 by Special Rider Music

giovedì 15 luglio 2021

L'INCORAGGIAMENTO E' IMPORTANTE... O FORSE NO.

Nel 1990 stavo lavorando alacremente a Nathan Never con Serra e Vigna. Dovevamo avere una buona scorta di storie al momento dell'uscita, fissata per l'estate del 1991. Nel frattempo, però,  continuavo a scrivere da solo sceneggiature per Nick Raider.

La sceneggiatura intitolata Saigon era la quarta che scrivevo per la serie creata da Claudio Nizzi. D'accordo col supervisore Renato Queirolo, avevo forzato un po' la cronologia del personaggio. Gli avevo inventato un passato militare che comprendeva un'esperienza, anche se breve, nel Vietnam. 

 

La prima versione del soggetto era zeppa di ingenuità, che Queirolo mi additò subito. Mi disse: "Dovresti leggere qualche libro serio sul Vietnam, e non basarti su Apocalypse Now e Il cacciatore". Mi sciroppai un'intera enciclopedia a dispense appena uscita (il titolo, se non ricordo male, era Nam o The Nam) , riscrissi da capo il soggetto, che fu approvato, e poi realizzai la sceneggiatura. 

Queirolo mi fece cambiare solo il finale, che nella prima versione era piuttosto splatter, e di tutto il resto toccò poco o nulla. 

Non avevo ancora trent'anni, ed ero orgoglioso del lavoro fatto. Prima di allora non mi ero mai documentato tanto per scrivere una storia. E se un supervisore esigente (eufemismo) come Renato Queirolo era soddisfatto, potevo a buon diritto esserne soddisfatto anch'io.

La storia uscì sul numero 33 della serie, nel mese di febbraio 1991.

Mesi dopo la pubblicazione, in uno dei miei periodici viaggi a Milano, una redattrice mi consegnò una lettera. Era indirizzata proprio a me, c/o Sergio Bonelli Editore. Una lettera per me? Solo per me? Non per Medda, Serra e Vigna? Un lettore mi scriveva? Ero incredulo. Ma, se si era preso il disturbo di scrivere, sicuramente voleva dirmi quanto aveva apprezzato una delle mie storie... 


La busta non indicava alcun mittente e io, che bruciavo dalla curiosità, la aprii all'istante. Ecco che cosa conteneva. 

 

Ci rimasi male? Sul momento sì. La cosa ebbe altri effetti su di me? No. Per quanto fossi giovane e professionalmente acerbo, sapevo che negli anni a venire avrei letto critiche di ogni tipo al mio lavoro. E il fatto che alcune fossero argomentate (almeno formalmente) e travestite da "recensione" non le avrebbe rese meno immotivate, stupide, prevenute, assurde. 

Ma tutto questo non ha la minima importanza. Il lettore può dire quello che vuole. E anche il recensore, ci mancherebbe. Ho cominciato a pubblicare nel 1988, più di trent’anni fa. In tutto questo tempo non ho mai replicato a un recensore per dirgli "Guarda, non hai capito, lascia che ti spieghi". 

D’altro canto, mi mettono tristezza quelli che postano il link alla recensione positiva, e ancora di più quelli che ringraziano il recensore. Una recensione positiva non renderà buono il vostro lavoro, se non lo è.  E se lo è, una recensione negativa non lo renderà pessimo.

Penso che in qualsiasi campo artistico autori e critici debbano viaggiare su rette parallele e non incrociarsi mai. Per questo il dibattito sulla critica fumettistica non mi ha mai appassionato. Sì, sarebbe un mondo più giusto quello in cui il fumetto definito “popolare” fosse analizzato con la stessa attenzione dedicata alle cosiddette graphic-novel. Ma non ci perdo il sonno. Sono ben altre le ingiustizie che mi preoccupano, da qualche anno a questa parte.

Se c'è un solo suggerimento che dopo trenta e più anni di attività di scrittore  posso dare a un giovane  scrittore è questo: quando ti siedi a scrivere, non c’è nessuno tra te e la pagina bianca. Quello spazio è tuo, nessuno può invaderlo. Nessuno può turbare quel flusso invisibile che parte dal tuo cervello e prende forma sulla pagina.

Perciò, quando il lavoro sarà finito, sii il primo e unico giudice di te stesso. Giudica quello che hai scritto, non quello che ne scrivono gli altri.





sabato 19 giugno 2021

TRENT'ANNI DOPO


"Il futuro dell'avventura - l'avventura del futuro!" Con questa locandina, nel mese di giugno 1991, le edicole pubblicizzavano l’uscita di una nuova serie a fumetti, Nathan Never.

Ricordo perfettamente il momento. Camminavo per le strade di Cagliari, quando passando davanti a un’edicola buttai l’occhio sui fumetti esposti. E lo vidi. Agente Speciale Alfa. Il numero 1 di Nathan Never era lì sullo scaffale, tra Martin Mystère, Dylan Dog e tutti gli altri. E ricordo perfettamente anche ciò che provai: un tuffo al cuore e, un attimo dopo, un’ansia tremenda. Non era più un sogno che si agitava dentro le nostre teste, non era più la proiezione mentale di un futuro possibile. Adesso il campionato era cominciato, giocavamo in serie A, e l’arbitro aveva appena fischiato il calcio d’inizio.

Antonio Serra e io non avevamo ancora trent’anni, e Bepi Vigna appena qualcuno di più. Quando il progetto di Nathan Never fu approvato, il nostro trio lavorava per la casa editrice da pochi anni. Avevamo realizzato appena una manciata di sceneggiature per Dylan Dog, Martin Mystère e Nick Raider. A distanza di tanto tempo, mi chiedo perché Sergio Bonelli ci diede fiducia e ci permise di realizzare una serie tutta nostra. Gli eravamo simpatici? Gli facevamo tenerezza e voleva darci una chance come un buon papà? Oppure, col suo collaudato fiuto di editore, aveva capito che avevamo in mano le carte buone per una serie di successo?

Non ebbi mai il coraggio di chiederglielo, e oggi un po’ lo rimpiango. E poi, tutto sommato, mi rendo conto che il successo di Nathan fu anche il frutto di una irripetibile congiunzione astrale. Arrivammo al momento giusto: il successo di Dylan Dog era ormai conclamato e contribuiva a rendere cool  il medium fumetto, portandolo sotto i riflettori dei mass media. E contemporaneamente si affacciava alla ribalta professionale una nuova generazione di disegnatori, che interpretavano la lezione del fumetto italiano classico con un dinamismo “americano”. Noi avevamo dalla nostra l’entusiasmo della gioventù e, lasciatemelo dire, la capacità per sfruttarlo al meglio. Non stavamo cercando di rivoluzionare il fumetto mondiale. Semplicemente, volevamo fare una cosa che ci piaceva. E ci riuscimmo, ripagando la fiducia dell’editore.

Il successo di Nathan Never è stato decisamente popolare, in ogni senso. La nostra serie non è mai stata una serie coccolata dalla critica, non ha vinto una ricca messe di riconoscimenti alle varie manifestazioni fumettistiche, ma è stata premiata dall’affetto di un pubblico entusiasta e, per molti anni, numerosissimo.

Certo, in quel fatidico giugno 1991, eravamo ben lontani da immaginare tutto questo. Il futuro – quello di Nathan e il nostro - era ancora tutto da scrivere.

Oggi molti lettori ricordano ancora certe storie di Nathan Never legate a un particolare momento della loro vita: la prima ragazza, le vacanze al mare, un trasloco, e poi la nascita del primo figlio, perché dobbiamo imparare a “essere padri prima che vendicatori”. Nathan è stato un compagno di viaggio per loro come per noi, e da scrittore non posso pretendere una gratificazione migliore. 

 Tavola di Nicola Mari da Nathan Never n. 19, 
L'undicesimo comandamento

Non saprei cos’altro aggiungere. Anche se trent’anni sono un bel pezzo di vita, e di cose da dire ce ne sarebbero tante. Ma, come dicevano nel film di un altro trio, “Non ce la faccio... troppi ricordi”.

Ci vediamo in edicola col numero 361 di Nathan Never, L’ultimo volo, sceneggiato dal sottoscritto e magnificamente illustrato da Simona Denna. Copertina di Sergio Giardo.


 
Non ero in cerca di un aiuto speciale
non perseguivo grandi obiettivi 
avevo già raggiunto il traguardo
pensando soltanto a una serie di sogni.

Bob Dylan, Series of Dreams


Non voglio essere una vignetta 
in un cimitero di vignette.

Paul Simon, Call Me Al


martedì 11 maggio 2021

L'ASSASSINIO DI SISTER GEORGE

        locandina originale (dal sito benitomovieposter.com)

Londra, anni sessanta: June Buckridge è una matura attrice, famosa per il personaggio della simpatica infermiera Sister George in una soap opera di grande successo. Ma l’esuberanza dell’attrice e la sua propensione ad alzare il gomito le hanno inimicato il network, che si prepara a silurarla facendo morire il suo personaggio. La situazione compromette non solo la carriera di June, ma anche il suo rapporto con la sua giovane amante, Alice.

June reagisce nel modo peggiore possibile, manifestando la sua ostilità a missis Croft, l'unica dirigente del network che sembra propensa ad aiutarla. E la situazione precipita quando missis Croft posa gli occhi su Alice…

Nel 1968, dopo il grande successo di una storia tipicamente virile come Quella sporca dozzina, il regista Robert Aldrich torna a esplorare il lato oscuro della femminilità, come aveva già fatto con il dittico Che fine ha fatto Baby Jane? e Piano… piano, dolce Carlotta. Lo fa con un altro dittico, Quando muore una stella e L’assassinio di Sister George: i due film escono a un mese di distanza l’uno dall’altro. E se il primo non ha successo, il secondo ha un esito catastrofico al botteghino. Prevedibilmente, possiamo dire col senno di poi. 

The Killing of Sister George era una pièce teatrale di Frank Marcus. Aldrich la fece adattare dal suo sceneggiatore di fiducia, Lukas Heller, tenne l’interprete teatrale (una travolgente Beryl Reid), affidò la parte della giovane amante a Susannah York e quella della seduttrice Mercy Croft alla matura Coral Browne. Impossibile che il regista non si rendesse conto che il materiale scottava: la figura di June alias “George” è quella di una butch, una lesbica mascolina, che oltretutto qui non si fa scrupolo di ubriacarsi, sollevare le vesti a due suorine e fare battutacce sconce. Al contrario, la giovane amante Alice è infantile (June la chiama Childie, bambina, perché colleziona bambole), ed è ingenua, ma anche manipolatrice. Le due sono legate da una relazione impari, in cui June domina e Alice è sottomessa. Con l’entrata in scena di missis Croft il rapporto tra le due amanti si incrina. La Croft (interpretata da Coral Browne) sembra a prima vista il personaggio più razionale (nonché eterosessuale). Ma è lei, molto più scafata nel gioco della finzione e delle apparenze, ad avere la meglio sulla naiveté ostentata di June e su quella più ambigua di Alice, arrivando a sedurre quest’ultima.

Aldrich si propone il massimo realismo, al punto di girare una lunga sequenza in un vero locale di lesbiche, il Gateways Club su Kings Road. E, soprattutto, insiste nel mettere in scena la seduzione di Alice (assente nella versione teatrale). E sarà proprio questa scena, peraltro assai sofferta dalla York, ad affondare il film ai botteghini. Renata Adler scrive nella recensione per il New York Times che la Browne tasta il seno della York “con l’interesse di un ittiologo per uno strano pesce arenato sulla spiaggia”. La scena è assai esplicita e non esattamente solleticante, anche per la musica, degna di un film dell'orrore. Ma in diversi stati degli USA venne comunque tagliata, per violazione delle leggi sull'oscenità. La censura etichettò il film con il grado “X”, lo stesso dei porno. Aldrich si dichiarò pronto a eliminare completamente la scena pur di tenere il film sugli schermi, ma troppo tardi. A quanto sembrava, il problema era alla radice, nel soggetto. E la pellicola scomparve dai cinema nel giro di pochi giorni.

 

Val la pena di rilevare che il film non si esaurisce comunque nella tematica della love story omosessuale: Aldrich è uno dei primi registi a mettere alla berlina le ipocrisie della fiction televisiva, dimostrando di conoscerne i meccanismi che agiscono dietro le quinte: il siluramento di June dalla soap opera è prima accennato, poi minacciato, poi apparentemente ritirato, in uno stillicidio logorante. E l’abbrutimento grottesco mostrato nel finale è la logica conseguenza dell’”assassinio” – alla fine neanche troppo metaforico – citato nel titolo.

Dal punto di vista registico, qui lo stile di Aldrich è ancora più essenziale, “regia invisibile” alla maniera dei classici (Aldrich lo definì successivamente “la miglior regia che abbia mai fatto”). Ma aldilà di tutto questo è June/George il centro del film. Beryl Reid dà vita al personaggio con impressionante aderenza (il ruolo teatrale le era valso un Tony Award, e quello del film una nomination al Golden Globe), e alcune sequenze, come quella di June e Alice vestite da Stanlio e Ollio, sono quasi toccanti, in bilico tra ironia e tenerezza.

Se il film è stato un disastro al botteghino, nel corso del tempo non è stato dimenticato. Puntualmente recuperato nel corso degli anni in varie rassegne di “cinema sommerso” omosessuale, L’assassinio di Sister George è approdato anche su DVD. L’edizione della 01 Home Entertainment lo presenta nella sua versione originale di 133 minuti (quella uscita nei cinema italiani ne durava 112).


domenica 18 aprile 2021

JESSE JAMES, WE UNDERSTAND... 3^ e ultima parte

 

Nel 2007, a distanza di quasi trent’anni dai Long Riders di Walter Hill, il cinema torna a occuparsi di Jesse James con una produzione ad alto budget (c’è dietro Ridley Scott), dal titolo chilometrico che riverbera la durata del film (due ore e quaranta): L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (The assassination of Jesse James by the coward Robert Ford). Scritto e diretto dal neozelandese Andrew Dominik e basato sul romanzo omonimo di Ron Hansen, il film mette al centro il rapporto tra il fuorilegge e il suo assassino.

Il risultato ha poco del genere western e molto del noir: racconta infatti le vicende della banda James dopo la cattura dei fratelli Younger e la morte dei Miller. I fratelli James sono ancora alla macchia, e il posto degli Younger e dei Miller è preso da delinquentelli di mezza tacca: oltre ai fratelli Bob e Charlie Ford ci sono Wood Hite, Ed Miller e Dick Liddil. Ma la Legge ovviamente non molla la presa sulla banda, e la paranoia del fuorilegge braccato aumenta in parallelo alle tensioni tra i suoi compari. Quando la morsa si stringe intorno a Jesse James, Robert Ford – un tempo ossessionato da Jesse fino al punto di imitarne i tic - si convince a tradirlo. 

 

Raccontata così, la storia sembra avvincente. E invece, nonostante una confezione di tutto rispetto e (fotografia di Roger Deakins, collaboratore abituale dei fratelli Coen) e un ottimo cast, il film arranca per un tempo che sembra interminabile. Dominik si concentra più sulle pause dei criminali che sulla loro attività, senza lasciar emergere una linea narrativa precisa. In questa struttura episodica il film non si differenzia poi tanto dalle pellicole di Kaufman e Hill, se non per la voce del narratore fuori campo, tentativi di paesaggismo “lirico” e, soprattutto, una lentezza devastante. Manca però del tutto – a dispetto del realismo della messa in scena - il contesto storico, a cui le pellicole precedenti si erano dimostrate piuttosto attente. Jesse e i suoi compari non erano atterrati nel Missouri con un’astronave, ma si erano formati nel bagno di sangue della guerra civile. E dopo avevano continuato a vivere con le pistole in pugno nel Sud sconfitto e sbranato dai vincitori. Niente di tutto ciò interessa a Dominik: che parte invece con un ruffianissimo omaggio al suo produttore (una mano in primo piano che accarezza le spighe vi ricorda qualcosa?) per poi procedere con battibecchi e ammazzamenti più o meno casuali tra i banditi, separati da intermezzi a base di nuvole riprese in time-lapse. 


Al centro del racconto dovrebbe esserci il rapporto tra Ford (Casey Affleck) e Jesse James (Brad Pitt) Un’ossessione quasi morbosa del discepolo per il maestro, o del fan per la star. Ma tutto ciò si disperde tra le vicende dei membri della banda - un gruppo di bruti decerebrati - che si trascinano per più di un’ora, senza suscitare un solo palpito nello spettatore.

Il film prende quota solo quando l’azione si concentra tra le quattro mura della casa-rifugio di Jesse a Saint Joseph, nel Missouri. Qui la tensione narrativa finalmente monta, e tutta la parte che conduce all’assassinio è condotta con mano sicura: Pitt-James e Affleck-Bob Ford si scambiano più volte i ruoli del gatto e del topo, in un gioco psicologico sadico che coinvolge anche il fratello di Bob, Charlie (Sam Rockwell). E quando i fratelli Ford si trovano a fare i conti con l’improvvisa celebrità, finalmente il film sembra mettere a fuoco – certo, un po’ tardi – temi interessanti: mediocrità e riscatto, colpa ed espiazione, ybris e destino. 

Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2007, L'assassinio di Jesse James ha fruttato la coppa Volpi per migliore attore a Brad Pitt, ed è stato accolto dalla critica con recensioni quasi unanimemente entusiastiche. Il pubblico però si è dimostrato meno sensibile dei critici alle ambizioni del regista: a fronte di un budget di 30 milioni di dollari, il film ne ha incassati 15.

Da segnalare, in mezzo a un cast eccellente, due brevi apparizioni legate alla musica: una - sopravvissuta a stento a massicci tagli di montaggio - è quella di Zooey Deschanel, che interpreta Dorothy Evans, una cantante corteggiata da Bob Ford. Poco più di un cameo, invece, la parte di Nick Cave (co-autore della colonna sonora con Warren Ellis), che canta in un saloon La ballata di Jesse James.


Qui il trailer del film.  


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sabato 10 aprile 2021

JESSE JAMES, WE UNDERSTAND... (2^ parte)

 

I cavalieri dalle lunghe ombre (The long riders, 1980) di Walter Hill può contare su un’idea di casting geniale: i personaggi del film che fra di loro sono fratelli sono interpretati da attori che sono realmente fratelli. Dunque, i fratelli Keach interpretano i fratelli James, i fratelli Carradine sono gli Younger, i fratelli Quaid i Miller, e i fratelli Guest i Ford. Le intuizioni brillanti finiscono qui, purtroppo. Vero è che Hill e i suoi quattro co-autori (troppe mani per non rovinare la zuppa) forniscono la versione cinematografica più fedele della parabola dei fuorilegge, e sicuramente tengono presente La banda di Jesse James, il film firmato otto anni prima da Philip Kaufman: Jesse James ha un ruolo di secondo piano. Rimane una figura enigmatica, che James Keach interpreta con un’espressione vagamente allucinata, rendendo incomprensibile il perché Jesse sia considerato il leader della banda. A emergere, invece, è anche in questo caso Cole Younger. David Carradine dà vita a un Cole sornione e disincantato, ma che, a differenza di quello rappresentato da Kaufman, non nutre ambizioni da leader. 

David Carradine nei panni di Cole Younger

Purtroppo, tutto ciò non basta. Per quanto sia apprezzabile la ricostruzione storica, e per quanto sia impeccabile il trattamento dei tòpoi del genere (assalto al treno, duello all’arma bianca, sparatoria finale), la storia ha un andamento episodico che, mettendo in scena a turno i vari personaggi, non rivela un asse portante nel racconto. Non basta, per questo, neanche la presenza di personaggi femminili, unanimemente dalla parte dei fuorilegge, da mamma James alla giovane Beth, che lascia il pavido Ed Miller per Jim Younger. Curiosamente (ed è una contraddizione interessante), i banditi sono alla ricerca di una rispettabilità borghese, per quanto di facciata, con casa e figli.  Va controcorrente il solo Cole Younger, che però rifiuta di accasarsi con Belle Starr (Pamela Reed) "perché - le spiega diplomaticamente - sei una puttana".

Come nel film di Kaufman (e come in effetti avvenne nella realtà) la Legge non fa bella figura. Gli uomini di Pinkerton uccidono prima un giovanissimo Younger estraneo alla banda, e poi muore – anche se accidentalmente – il fratellino quindicenne di Jesse, mentalmente ritardato. 


 Il funerale del piccolo Archie James

Naturalmente, la banda non lascerà queste morti impunite. Al detective Rixley (un efficacissimo James Whitmore jr) non resta che contemplare i cadaveri alternarsi sui tavoli dell’obitorio, fino a quando, rassegnato, riuscirà a togliere di mezzo Jesse James solo convincendo i Ford a tradirlo.

Anche il film di Hill si conclude con l’omaggio dell’uomo comune ai banditi: al passaggio del treno che riporta nel Missouri la salma di Jessie James, un contadino si toglie il cappello. 

A differenza della vitalità debordante e un po’ sciamannata dei banditi di Kaufman, i fuorilegge di Hill mostrano una somiglianza maggiore con i long riders della realtà: uomini duri, introversi, legati da vincoli di sangue più forti di qualunque legge, incapaci di guardare il mondo oltre la canna della pistola. Il regista asciuga fino all’osso la loro rappresentazione filmica, ma la sterilità rappresentata diventa anche sterilità narrativa. Non c’è pietas per queste vite bruciate, e nemmeno un’indignazione “politica” per lo stupro del Sud da parte degli yankees vittoriosi, ma solo la contemplazione impassibile di una fine programmata.

Northfield, Minnesota. L'ultimo colpo del sodalizio James-Younger.

Insomma, al di là di un paio di scene efficaci (la sparatoria finale è da manuale di cinema), c’è poco di cui appassionarsi e per cui palpitare.

Non c’è morale in questa storia, se non quella che James Keach canta nella canzone Wildwood Boys (presente nella colonna sonora su disco, ma non nel film): only the strong will survive/ survival is living the longest/ but nobody gets out alive”.

 

Qui il link a Wildwood Boys (ma tutta la fantastica colonna sonora di Ry Cooder merita l’ascolto).
 
 
PS: il titolo italiano del film si inventa delle “lunghe ombre” assenti dal titolo originale. I long riders erano i fuorilegge, così chiamati per i lunghi spostamenti dovuti alla loro condizione di fuggiaschi perenni.  
 

sabato 3 aprile 2021

JESSE JAMES, WE UNDERSTAND... (1^ parte)

 

Il 3 aprile 1882 un uomo fu ucciso mentre, in piedi su una sedia, spolverava un quadro nel salotto di casa. Finiva così, con un proiettile nella nuca, la carriera dell’imprendibile fuorilegge Jesse James, ucciso da Robert Ford per riscuotere una taglia. All’epoca della sua morte, il folklore aveva già trasformato lui e i suoi compari nella versione americana di Robin Hood e gli allegri compagni di Sherwood. Ma almeno in un verso della celebre ballata sul fuorilegge si diceva la verità: "Jesse James, we understand, had killed many a man".  I fratelli Jesse e Frank James, insieme ai fratelli Younger e a un pugno di altri desperados, erano semplicemente rapinatori e assassini. Lo avevano già dimostrato durante la Guerra Civile, cavalcando al seguito di sanguinari guerriglieri sudisti come William Clarke Quantrill e “Bloody” Bill Anderson e macchiandosi di atrocità nei confronti della popolazione civile. Dopo la guerra intrapresero una fruttuosa carriera di rapinatori nel Missouri, il loro stato natale, e negli stati vicini. 

Astuti e spavaldi, i James e gli Younger poterono contare sull’appoggio della popolazione del Sud, assetata di rivincita contro gli odiati yankees. Anche per questo sfuggirono a lungo agli sceriffi e ai detective privati dell’agenzia Pinkerton. La fortuna voltò loro le spalle nel 1876, a Northfield, nel Minnesota, dove tentarono di rapinare la banca. La popolazione li mise in fuga a fucilate, e alcuni dei fuorilegge rimasero sul terreno. La banda, braccata, fu costretta a dividersi. I fratelli Younger furono catturati, ma i fratelli James riuscirono a fuggire. Rimasero in circolazione per altri sei anni, finché la taglia sulla testa di Jesse non fece gola a Robert Ford, che gli sparò in quel fatale 3 aprile. Frank James si consegnò alla Pinkerton poco dopo la morte del fratello. Fu processato, ma non si riuscì a provare la sua partecipazione ai crimini della banda. Rimesso in libertà, visse una vita tranquilla. All’alba del nuovo secolo si esibì in performance circensi nella parte di se stesso, insieme all’ex compare Cole Younger, rilasciato dopo venticinque anni di carcere. Era il 1903. Appena cinque anni dopo, il mito di Jesse James approdava sugli schermi del cinematografo. Nel 1921 furono girati due film in cui Jesse James jr, a dispetto dell’età e di un fisico non proprio prestante, interpretava suo padre, in una versione ovviamente idealizzata. 

Jesse James, quello vero 

 Cole Younger, poco dopo la cattura

Nei decenni successivi, ben pochi film e serie televisive si preoccuparono di guardare alla Storia per raccontare la figura di Jesse James. Dire che gli autori si presero libertà narrative è fin troppo eufemistico. E sì che nel tentativo si cimentarono registi di valore, come Nicholas Ray e Fritz Lang. E a interpretare il famoso bandito si succedettero Tyrone Power (insieme a Henry Fonda nella parte di Frank James), Lee Van Cleef, Robert Wagner, Kris Kristofferson (con Johnny Cash come Frank), più una pletora di volti più o meno celebri negli USA. 

locandina del film diretto da Fritz Lang
(immagine tratta dal sito benitomovieposter.com)

La palma del film più assurdo con Jesse James, comunque, è vinta a mani basse da Jesse James meets Frankenstein’s Daughter (1966), di William Beaudine. Il bandito è interpretato da John Lupton (dignitoso attore televisivo), e nel cast fa capolino anche Jim Davis, da noi noto per il ruolo di Jock Ewing, il patriarca di Dallas. La trama: per sfuggire alla Legge, Jesse, braccato col suo compare Hank, si rifugia a casa di “Juanita”, che in realtà è Maria. Maria è nipote del barone Von Frankenstein, e trasforma il povero Hank in un mostro che ribattezza – indovinate - Igor. Purtroppo o per fortuna, il film è rimasto inedito da noi, ma potete trovarlo intero su You Tube. Al contrario, ben poco si sa di Jesse James vs. Al Capone, prodotto televisivo su cui perfino l’enciclopedico IMDB fornisce pochissime informazioni.

Insomma, finora la pur vastissima filmografia (almeno una quarantina di titoli) su James e la sua banda non ci ha consegnato capolavori. Almeno tre film, comunque, sono interessanti, se non altro per il tentativo di contestualizzare storicamente le imprese della banda. Il titolo spartiacque è La banda di Jesse James (The Great Northfield Minnesota Raid), scritto e diretto nel 1972 da Philip Kaufman. Kaufman ha legato il suo nome soprattutto a I predatori dell’Arca perduta (di cui firma il soggetto), ma ha diretto anche un bell’adattamento di un romanzo di Richard Price (The Wanderers – I nuovi guerrieri, 1979), e Uomini veri (1983). 

Il film si concentra sulla fallimentare rapina alla banca di Northfield, che decreterà la fine della banda James-Younger. Niente da dire sulla confezione, che si avvale tra l’altro della splendida fotografia di Bruce Surtees (già collaboratore di Don Siegel e poi di Clint Eastwood), di un’ottima colonna sonora e soprattutto di un ottimo cast di “facce western” come i comprimari Luke Askew, Matt Clark e R.G. Armstrong, visti anche nei film di Sam Peckinpah. Ma l’approccio di Kaufman alla materia è alquanto singolare. Il protagonista infatti non è Jesse James (interpretato da Robert Duvall), ma Cole Younger, interpretato da Cliff Robertson. Il film racconta essenzialmente le manovre di Younger per convincere i cittadini più ricchi a depositare i loro averi nella banca di Northfield, che al momento naviga in cattive acque. Robertson dà vita a un Cole spavaldo, astuto, ironico. Un personaggio larger than life, il vero “cervello” della banda. Al contrario, il Jesse James di Duvall è rappresentato come uno psicopatico impulsivo, a stento tenuto a freno dal fratello Frank. Non basterà comunque il cervello di Cole ad avere la meglio su un mondo in rapida mutazione (sottolineato dal regista con la comparsa in città di un organetto a vapore), in cui le rapine, come dirà più avanti Woody Guthrie, si compiranno con la penna stilografica e non più con le pistole. 

 Robertson/Cole Younger (immagine tratta dal sito photobuste.com)

Per essere un western, il film non ha niente di epico, nemmeno nelle (poche) sparatorie, né un filo narrativo robusto. Anzi, la trama ha un andamento episodico, alternato tra i registri del realismo e del grottesco. Il film si apre con Jessie e uno dei suoi compari seduti in una latrina, intenti a commentare gli articoli dei giornali con cui si accingono a pulirsi il fondoschiena. E Kaufman sembra più interessato a raccontarci le pause della loro vita da banditi (le chiacchiere, le soste al bordello o al saloon) che momenti avventurosi come fughe e sparatorie. Non manca, curiosamente, nemmeno un momento onirico, sotto forma di un sogno-allucinazione di Younger. Coerentemente con la vena anarcoide della Hollywood anni Settanta (Penn, Altman. Ashby), i rappresentanti della Legge e i probi cittadini sono dipinti da Kaufman come avidi e ottusi (impiccano quattro poveracci scambiandoli per i banditi), e non c’è niente di rassicurante nella loro vittoria finale sui fuorilegge. Anzi, nella scena finale Kaufman regala un momento di gloria a Cole Younger: per quanto ferito gravemente, Cole si alza in piedi nel carro con le sbarre che lo porta alla prigione, e raccoglie gli applausi della folla che inneggia a lui, e non alla Legge.

Per quanto totalmente calato nel decennio dei Settanta, il film di Kaufman ha se non altro il pregio di inquadrare la storia della banda in un contesto storico preciso, nonostante le inevitabili licenze narrative. Giusto per fare due esempi, il regista non dimentica la presenza di un consistente nucleo di immigrati svedesi nella regione, e regala una lunga scena (del tutto ininfluente ai fini del plot) alla rappresentazione di una partita di baseball. The Great Northfield Minnesota Raid non sarà mai considerato un capolavoro del genere, ma avrà ugualmente la sua importanza: influenzerà pesantemente il successivo film sulla banda James: I cavalieri dalle lunghe ombre di Walter Hill, che arriverà otto anni dopo. Ne riparleremo presto. 

 

The Great Northfield Minnesota Raid è presente su You Tube con una copia discreta, con sottotitoli in inglese (potete attivarli cliccando sulla rotellina delle impostazioni). 

Vi propongo The Ballad of Jesse James nella versione di Eddy Arnold, sconosciuto da noi. Ma divertitevi a cercare le versioni di Bruce Springsteen, Ry Cooder, Johnny Cash, del Kingston Trio,  e perfino quella (eccellente) della band anglo-irlandese The Pogues.

martedì 9 marzo 2021

IMPROVVISAMENTE, UN UOMO NELLA NOTTE

 

 

Un anno imprecisato nell’Inghilterra vittoriana: i fratellini Miles e Flora hanno perso la mamma. Il patrigno parte per lavoro e li lascia nella sua grande casa in compagnia di un’anziana custode, Missis Grose, e della giovane governante Miss Jessel. Ma Miles e Flora si divertono molto di più col giardiniere, Peter Quint. Quint è un uomo amorale che alterna comportamenti infantili ad altri decisamente perversi, e ha infatti una relazione sadomaso con la piacente Miss Jessel. Quando i ragazzi lo scoprono interpretano la cosa come l’ennesimo gioco proibito, e tentano di riscriverne le regole a modo loro…

Improvvisamente un uomo nella notte (traduzione un po’ goffa di The Nightcomers, 1971) è costruito come premessa – oggi useremmo il termine prequel - al famosissimo romanzo di Henry James, Il Giro di Vite, portato sullo schermo più volte. In questo caso lo sceneggiatore Michael Hastings si diverte a inventare quello che nel romanzo di James rimane tra le righe, cioè la natura della morbosa relazione tra il rude Quint e la borghese miss Jessel.
 
Non sorprende affatto trovare nei panni di Quint Marlon Brando, che alla fine degli anni sessanta inanella una serie di film a dir poco singolari (per non dire bizzarri). Pigro, amorale, perverso, Quint è un personaggio a due facce. Ispira repulsione e fascino nello stesso tempo, sia che costringa la povera miss Jessel a giochi sessuali a base di bondage o che infili il piccolo Miles dentro una sorta di deltaplano rischiando di farlo sfracellare al suolo. E Brando, anche se con un improbabile accento irlandese, rende il personaggio da par suo.


Sorprende invece trovare alla regia il nome Michael Winner, un regista il cui carnet non mostra familiarità con atmosfere letterarie: titoli come Professione assassino e Il giustiziere della notte, entrambi con Charles Bronson, dicono tutto.

La storia ha i suoi momenti forti (il povero rospo seviziato, le scene di sesso sadomaso, ovviamente in termini soft), ma li alterna un po’ goffamente con brevi scenette ironiche (un topo in cucina) e momenti grotteschi (il ritrovamento di un cadavere); cosa che ovviamente non costituirebbe un problema con un regista capace di variare il registro.

Perché di Brando s’è detto, Stephanie Beacham nella parte di miss Jessel fa il suo dovere, e Thora Hird nel ruolo di missis Grose è inappuntabile (l’attrice è scomparsa nel 2003 dopo sessant’anni di carriera, insignita del titolo di Dame). E alla fine se la cavano anche i due giovanissimi intepreti (la cui carriera cinematografica è stata brevissima).


Il problema è che su una sceneggiatura già di per sé priva di finezze Winner piomba a piedi uniti, e  con gli scarponi chiodati. E se è abbastanza accorto da lasciare spazio a Brando per il suo monologo, dirige le scene di dialogo in maniera corriva (spesso chi parla dà le spalle al suo interlocutore, come il cattivo di un film di serie B), sottolinea ogni momento forte senza risparmiare le musiche di Jerry Fielding e abusa dello zoom come se stesse girando un western all’italiana. Ma il peggio è il finale: a vicenda risolta Winner trascina lo spettatore in una serie di dissolvenze incrociate perfettamente inutili, che non fanno che ribadire quanto già visto e già detto.

In sostanza, Improvvisamente un uomo nella notte è una buona idea sviluppata male, ma merita comunque una visione. Vuoi perché il gioco del prequel del romanzo è comunque intrigante; vuoi perché vedere Brando è sempre un piacere, anche e soprattutto nella versione italiana, con la bellissima voce di Giuseppe Rinaldi; vuoi perché il film risulta “forte” oggi ancora più di ieri, con le sue atmosfere torbide, tensioni incestuose, adolescenti trascinati in giochi proibiti. Non stupisce che The Nightcomers abbia circolato poco o niente sulle reti generaliste. Finora è stato ignorato anche dallo streaming, e attualmente è reperibile solo in DVD.




Qui la sequenza di apertura del film, con i titoli di testa.

giovedì 18 febbraio 2021

UN WESTERN PER GLI ANNI DUEMILA

 

 

Ogni volta che un film western mi delude (quindi due o tre volte all’anno da almeno quindici anni) devo rimediare con un bel western. Che può essere un classico o no. Se non è un classico, è Broken Trail – Un viaggio pericoloso (2006), film televisivo di Walter Hill, finora superato nella mia personale top ten solo da Terra di confine (Open Range) di Kevin Costner, di cui Robert Duvall riprende lo stesso personaggio (pur con altro nome): il vecchio cowboy che ha passato una vita in sella. E che ora percorre l’ultima, insidiosa pista per raggranellare quanto basta ad assicurarsi una vecchiaia serena.

In Broken Trail l'anziano cowboy si chiama Print Ritter. La sorella di Print, in rotta col figlio, è morta e ha lasciato al solo Print casa e terreni. Ma Print non vuole sottrarre l’eredità al nipote Tom (Thomas Haden Church), e gli propone un patto: vendiamo tutto, compriamo cinquecento cavalli e andiamo a venderli nel Wyoming. Col ricavato ci sistemeremo a vita. Tom accetta, e i due cominciano il viaggio dall’Oregon al Wyoming. Ma sono costretti a rivedere i loro piani quando incontrano un ruffiano (James Russo) che sta scortando un altro tipo di mercanzia: cinque ragazze cinesi, destinate a un bordello di minatori, che non parlano una parola di inglese... 

 

Su un canovaccio lineare, Hill e lo sceneggiatore Alan Geoffrion costruiscono un western che svolge temi classici dentro un impianto realistico, passando con naturalezza da un registro all’altro. C’è la stessa sobrietà nella rappresentazione di una violenza “necessaria”, mai esibita volgarmente, che nella rappresentazione dei sentimenti, distillata con un leggero tocco di umorismo.

Broken Trail ha tutto ciò che ci si può aspettare da un western. C'è l’amicizia virile, il coraggio e l’onore, e un tema di base caro a Clint Eastwood: quello della “famiglia allargata” che si costituisce lungo la strada. Lo sfondo storico è quello della frontiera, una frontiera che alla fine dell’Ottocento è ormai quasi raggiunta: ma ancora ci sono città senza legge dove i conti si regolano con la pistola, popolate da avventurieri in cerca di fortuna, e da immigrati che vi trovano la morte dei loro sogni. Tutto ciò mentre procede inesorabile la graduale cancellazione dei nativi americani, perpetrata non solo con le armi, ma con le malattie. 

 


Walter Hill ha sempre fatto western, anche quando girava thriller urbani (qualcuno ricorda che l’autista di Driver non ha un nome, ed è chiamato semplicemente “cow-boy”?). Ma Broken Trail è il suo primo lavoro in cui il paesaggio non è il Territorio ostile à la Robert Ardrey attraversato dai Guerrieri della palude silenziosa, né lo scenario impassibile che protegge la fuga degli Apache di Geronimo o dei Long Riders della banda James. È un luogo di suggestiva bellezza dove è possibile fermarsi a contemplare il cielo notturno acceso di stelle, dove apprezzare una piccola gioia come immergere i piedi stanchi nell’acqua fresca, dove sognare la libertà e un futuro migliore.

Nella filmografia western degli anni duemila Broken Trail fa storia a sé. Senza negare l’iconografia tradizionale e i luoghi comuni del genere, ma anche senza ignorarne le rivisitazioni realistiche postsessantottine, Hill e lo sceneggiatore Geoffrion si tengono alla larga dalla decadenza tombale del western contemporaneo. E anzi, riaffermano testardamente il valore etico del genere, nell’affermazione di un sentimento di solidarietà umana al di sopra di ogni differenza etnica e linguistica: l’unica risorsa possibile davanti a sfide che mettono in palio il nostro destino. 

 

Doveroso spendere qualche parola per cast e crew, e cominciamo col dire che il film ha una confezione di lusso. Direttore della fotografia (Lloyd Ahern) e montatori (Freeman Davies e Phil Norden) sono collaboratori di Hill da anni. Alla colonna sonora non c’è il fido Ry Cooder, ma altri due big: Van Dyke Parks (collaboratore, tra gli altri, dello stesso Cooder) e David Mansfield (basta un titolo: I cancelli del cielo).

 

Infine, gli attori. Se può apparire superfluo sottolineare l’ennesima grande prova di Duvall, il resto del cast non gli è da meno. Bravo e convincente il co-protagonista Thomas Haden Church, se la cavano bene anche le giovani interpreti “cinesi” (in realtà canadesi; la sola Gwendolyn Yeo è nata in Asia), e in ruolo un po’ defilato – il cow-boy violinista che affianca i due protagonisti - c’è il giovane Scott Cooper, altro nome familiare per il western: è il regista di Hostiles. Efficacissimi anche i cattivi, ma più dei laidi personaggi di Chris Mulkey e James Russo resta impressa la corpulenta quanto spietata ruffiana Big Rump Kate, interpretata da Rusty Schwimmer. Ma è Greta Scacchi il cuore del film. Il suo personaggio è quello di Nola, prostituta picchiata e sfregiata dal suo ex amante, che si aggrega ai nostri per sfuggire alla vendetta di lui. In un finale struggente davvero insolito per un film western, sarà lei a ricordare a Print – e a noi spettatori – che, anche se si raggiunge indenni la meta, si rimpiangerà sempre qualcosa che è andato perduto lungo la strada. 

Clicca qui per il trailer originale.

giovedì 4 febbraio 2021

I SUPEREROI NON MUOIONO, PASSANO NEL MONDO DELLA REALTA'

Nel 1998 sono alla Comic Convention di San Diego insieme a Stefano Casini e a un gruppo di professionisti italiani. Mentre giriamo per la mostra ci ferma un tizio sulla cinquantina, con una cartella sottobraccio. Ha la barba non rasata e un aspetto sciatto. Dice di essere un disegnatore, vorrebbe sapere come proporsi in Italia, e ha con sé dei disegni. Stefano e io ci guardiamo perplessi. Il tipo è un po’ troppo maturo per essere il classico appassionato che da grande vuole fare il disegnatore. Gli spieghiamo che non siamo editori, però non c’è problema, diamo volentieri un’occhiata ai disegni.

Sono supereroi, ovviamente. Ci rendiamo conto subito che quest’uomo è un professionista. E poi leggo il suo nome. E faccio due più due. Da ragazzino ho letto non so quanti albi dei Fantastici Quattro disegnati da lui, e ho visto la sua firma anche su Capitan America, I Vendicatori e chissà cos’altro.

Adesso gira per una fiera come un ragazzotto ventenne, ma non lo è più, un ragazzotto. È un cinquantenne ormai fuori dal giro, che chiede lavoro a due italiani sconosciuti. Ma glielo leggi negli occhi: non è un collega che si sta informando da colleghi su un’eventualità di lavoro. È uno che sta affogando e chiede al primo che passa di lanciargli un salvagente.

Gli ripetiamo che, non essendo editori, non possiamo fare materialmente niente per lui, e che purtroppo il suo materiale non rientra negli standard dell’editore per cui lavoriamo. Però può comunque rivolgersi allo stand del gruppo italiano, magari qualcuno può indirizzarlo da un editore. Lui richiude la cartella, ci ringrazia sforzandosi di sorridere, e si dirige allo stand. Dove, lo sappiamo già, non c’è nessuno in grado di lanciargli un salvagente. E nessun altro lo farà. Negli anni 2000 questo disegnatore firmerà una sola storia, breve e per una piccola etichetta, e un manuale di tecnica del disegno.

Per Herb Trimpe, più o meno negli stessi anni, l’esperienza è simile, ma avrà uno sbocco diverso. Trimpe negli anni Novanta si divide tra Hulk e I Fantastici Quattro, quando la Marvel entra in crisi. Nel 1995 I Fantastici Quattro chiude, e Trimpe si ritrova col lavoro dimezzato. La sua soglia minima per campare è di sedici pagine al mese, e ora non ci arriva più. Sta per compiere cinquantasei anni e ha due figli al college. Non perde tempo, e lo stesso giorno del suo compleanno manda una richiesta per fare un corso di formazione al New York's Empire State College. Gliela accettano tre mesi dopo.

In novembre, anche Fantastic Four Unlimited chiude. Trimpe, senza lavoro, va a parlare all’ufficio personale della Marvel, e l’imbarazzatissima responsabile gli dice di andare in pensione. Trimpe rifiuta: ha famiglia, e deve lavorare. Dice: “Io non mi punto la pistola alla testa. Piuttosto, sparatemi voi”. Cerca di ragionare, insulta, arriva a implorare (“I've tried reason, outrage, guilt trips and begging”). Niente. Dopo un mese, è chiaro che dalla “casa delle idee” non arriverà altro lavoro. Nel mese di gennaio 1996 la Marvel licenzia una ventina di persone, e tra queste c’è anche l’editor di Trimpe.

A casa, Trimpe comincia a lavorare a una propria comic strip, ma con poca convinzione.

Intanto è cominciato il corso al NY Empire State College. È lungo, difficile e soprattutto costoso. Qualche lavoro arriva comunque. Ma il 3 febbraio Trimpe annota nel suo diario: “Sento che mi sto trasformando in qualcun altro”. Pochi giorni dopo, un attacco di panico lo sveglia nel cuore della notte.

Nel mese di maggio la Marvel lo licenzia definitivamente, con una lettera lunga decine di pagine. È il “termination agreement”. Trimpe annota diligentemente nel suo diario che gli tocca “firmare dei moduli in cui mi impegno a non parlare della Marvel, non rivelare identità segrete di supereroi, non parlare male di Stan Lee, non piantare grane”. Se non firma quell’accordo non avrà la liquidazione. Firma, e continua a proporsi ad altre case editrici. Inutilmente.

Nel mese di giugno la strip che stava realizzando da solo ha collezionato il quarto rifiuto, e Trimpe si mette in coda all’ufficio di collocamento. Scrive sul diario: “Il pensiero di fare dei colloqui di lavoro mi deprime. Ma il pensiero di non tornare a lavorare mi deprime anche di più”.

Nessun lavoro all’orizzonte, ma Trimpe continua il corso all’Empire State, e contemporaneamente impara a usare Quark Express, Photoshop e Adobe Illustrator. Ma ancora niente sul fronte del lavoro. Scrive: “Razionalmente, posso accettare di non portare il mio contributo alla famiglia, ma psicologicamente è un’altra faccenda. Questa cosa mi divora dentro”.

Un anno dopo prende il suo bravo diploma all’Empire State College. Ora può insegnare. Ci vorranno ancora dei mesi, ma nel gennaio 1999 Trimpe è docente alla Truman Moon School di Middletown, e si divide tra una scuola elementare e un college. Ha 59 anni. Fa cinque ore di lezione al giorno. Sono mesi faticosi, ma gratificanti. Non è un posto fisso, però.

A fine anno scolastico Trimpe è di nuovo disoccupato. Dopo un’estate di colloqui a vuoto, trova una cattedra in una scuola pubblica, a Eldred. Deve fare ogni giorno più di un’ora di macchina per arrivarci, ma non è il caso di fare gli schizzinosi. Il problema sono i ragazzi. Definirli “vivaci” un eufemismo, e Trimpe passa da momento di euforia a veri e propri attacchi di ansia.

Ma il primo dicembre la tempesta è alle spalle: “Mi sento molto positivo in queste ultime settimane. L’amministrazione e lo staff mi aiutano molto. E oggi ho avuto la mia Varsity Jacket (il giaccone con lo stemma e i colori della scuola, ndt). Il cerchio si è chiuso”.

Nel 2000 Trimpe racconta la sua odissea in un lungo articolo per il New York Times. Wikipedia ci dice che ha insegnato nella scuola di Eldred per due anni. Non si sa che cosa abbia fatto dopo. È morto nel 2015, lo stesso anno che vide la sua ultima apparizione pubblica, alla East Coast Comicon, nel New Jersey.

Nel mese di giugno del 1996 aveva scritto: “Mi rendo conto che oggi è il mio primo giorno senza alcun lavoro, da quando ho lasciato l’Aeronautica, 34 anni fa. Sensazione interessante. È come essere in bilico sull’orlo di una scogliera. Ma forse riuscirò a volare.” 

Herb Trimpe nel 2015, all'East Coast Comicon

    Foto ©Luigi Novi/Wikipedia Commons        

 

                                                     

 


domenica 3 gennaio 2021

DECIO CANZIO, IL MIO DIRETTORE

Al di fuori di pochi appassionati di fumetti, il suo nome non è noto. Eppure era un nome importante, che suonava come quello di un antico romano. Dopotutto, era discendente di quello Stefano Canzio che sposò Teresita Garibaldi, figlia del generale. Decio Canzio è stato per circa quarant’anni il più stretto collaboratore di Sergio Bonelli, e per più di trenta direttore generale della casa editrice. È stato quindi anche il mio direttore, fino al momento della sua pensione.

Era un omone imponente, sornione e un po’ burbero, di una compostezza tipicamente milanese. Non amava apparire (ci sono pochissime sue fotografie in giro), e limitava le apparizioni pubbliche agli obblighi di rappresentanza della casa editrice. Raramente alzava la voce. Perché non ne aveva bisogno per essere autorevole e, all’occorrenza, anche tagliente.

Era una persona coltissima. Come diceva Antonio Serra: “Se due enciclopedie riportano una data per un certo evento, Decio ne ha sicuramente un’altra che riporta un’altra data, ed è quella esatta.” Ma non sarebbe diventato il più stretto collaboratore di Sergio Bonelli se non fosse stato un formidabile narratore e editor. 

 
Copertina de "L'uomo del Nilo", scritto da Decio Canzio per i disegni di Sergio Toppi

Dopo avere scritto quasi seimila pagine per la serie Il piccolo ranger negli anni settanta e alcune sceneggiature per la serie Un uomo un’avventura, a partire dagli anni ottanta ricoprì il ruolo di direttore generale della casa editrice. Di fatto, a parte le incombenze “di rappresentanza” in quanto numero due della Sergio Bonelli Editore, svolse il ruolo di super-supervisore: leggeva (e, se era il caso, correggeva) praticamente ogni pagina che uscisse dalla casa editrice per andare in stampa. Dunque, anche quelle che scrivevo io.

Ero uno sceneggiatore giovane, nemmeno trentenne, quando lo incontrai per la prima volta e lo vidi dietro la sua scrivania, una sorta di monumentale Nero Wolfe del fumetto. Non era facile non averne soggezione. E infatti io ne avevo. Praticamente come Fracchia davanti al capufficio, il cav. Dott. Ulisse Acetti. Ci volle qualche anno perché quella soggezione diventasse stima.

Una volta mi lamentai con Antonio Serra della quantità di correzioni di Canzio sui testi di una mia storia di Nathan Never. Dissi ad Antonio che se Canzio avesse dovuto applicare lo stesso metro alla storia X dello sceneggiatore Y, uscita in edicola un mese prima, neanche una pagina si sarebbe salvata. 

 

Il legionario Antonio (Serra) a rapporto dal console Decio.

“Non hai capito – disse Antonio – Decio ti corregge perché ti stima.”

“Cioè, mi stai dicendo che mi corregge ogni balloon di dialoghi che andavano bene comunque, però ha una buona opinione di me?”

“Certo. Se ti corregge, vuol dire che ti legge con interesse e vuole che la tua storia venga fuori al meglio.”

“E la storia di Y, allora?”

“Y non gli piace. Si annoia a leggere le sue cose, e quindi corregge solo gli svarioni veri e propri”.

Alla fine capii che era vero. Così come mi fu chiaro che alcuni suoi interventi erano “di default” per far rientrare noi scavezzacolli nei paletti della “bonellità” (e anche, diciamola tutta, per assecondare certe fisime dell’editore). Ma capii che la sua revisione era tesa a far sì che le storie filassero, che non ci fossero sviste o contraddizioni, e soprattutto che ogni singola vignetta fosse immediatamente comprensibile nel testo e nei disegni. “Non dobbiamo generare confusione nel lettore”. Anche il meno sveglio dei lettori doveva leggere la storia d’un fiato, senza tornare indietro a rileggere per capire un passaggio farraginoso.

Imparai presto la ratio dietro alle sue correzioni, e imparai a limare i miei dialoghi, che in effetti a volte erano eccessivamente lunghi, o con battute troppo arzigogolate per risultare efficaci. Imparai anche a dirgli che a volte non ero d’accordo con i suoi interventi. Al che lui rispondeva sornione: “Ne prendo atto, Medda”. Burbero, sì, ma quando uscì una mia storia di Tex con alcune modifiche (ai miei occhi comprensibilissime), mi scrisse una lettera per spiegarmi nel dettaglio perché erano state fatte. Una lunga spiegazione che non era assolutamente tenuto a darmi.

A un certo punto smise di chiamarmi per cognome, e cominciò a chiamarmi per nome. Il rito della visita nel suo ufficio, che agli esordi sembrava il rapporto al colonnello da parte del giovane sottufficiale appena uscito dall’accademia, diventò una chiacchierata sul più e sul meno. Parlavamo di cinema. Mi chiedeva della Sardegna, e mi raccontava di quando c’era stato da giovane, in posti davvero incontaminati. Mi disse che agognava una vacanza in un posto remoto, dove potesse guardare fino all’orizzonte senza trovare tracce di presenza umana, neanche i pali dell’elettricità. E una volta – con mio assoluto stupore – mi disse che si era commosso fino alle lacrime guardando il film Fluke, la storia fiabesca di un cane che scopre di essere la reincarnazione di un uomo.

Paradossalmente, quando mi trasferii a Milano non ebbi modo di vederlo spesso come quando venivo in città dalla Sardegna. Il lavoro di supervisione delle serie, vista la quantità, era stato distribuito tra vari redattori. Canzio si era tenuto per sé solo la supervisione delle ristampe di Tex.

L’ultima volta che ebbi modo di scambiare qualche parola con lui fu durante la riunione per l’approvazione di Caravan, a cui lui presenziò per pochi minuti. Prima di andare via mi prese da parte e mi disse che apprezzava il mio tentativo di fare una serie diversa, ma che il pubblico non lo avrebbe capito. Non lo disse con tono di rimprovero, però. Sembrava piuttosto un padre preoccupato che il figlio si cacciasse nei guai.

Pochi anni dopo ebbe problemi di salute. L’età avanzava, d’altronde, ed era tempo di andare in pensione. Si mormorava che in redazione gli avessero preparato un party di congedo per l’ultimo giorno di lavoro. La cosa probabilmente gli arrivò alle orecchie: così il giorno fatidico telefonò in ufficio per dire che non stava bene, che sarebbe rimasto a casa, e tanti cari saluti a tutti. Probabilmente si immaginava un party con le trombette, i cappellini colorati, il discorso di commiato condito di retorica di circostanza, e forse anche qualche lacrimuccia delle segretarie. Troppo, per uno che aveva fatto della discrezione uno stile di vita.

Se ne andò il 4 gennaio 2013, testardamente coerente fino all’ultimo, anzi, fino alle ultime volontà: nessuna messa e nessun funerale. Perfino quello sarebbe stato un evento troppo mondano per lui. 

 

Come dicevo, non circolano molte foto di Canzio, e per la maggior parte risalgono ai suoi ultimi anni in casa editrice, quando già la salute vacillava. Mi piace ricordarlo sorridente con questa foto, scattata sicuramente a una delle edizioni di Inovafumetto, a Lugano. Dietro di lui ci sono Antonio Carboni, l’organizzatore dell’evento, e Sergio Bonelli. La foto l’ho presa dal blog di Moreno Burattini, che contiene anche un articolo sulla produzione fumettistica di Decio Canzio.