Ho ritrovato un vecchio articolo, scritto nel 2006, su un film che amo molto, Witness di Peter Weir. L'unico caso in cui il regista australiano si è cimentato nel "genere", ovviamente interpretandolo a modo suo, ma senza la pretesa intellettualistica di trasformarlo. Regia di classe, ovviamente, ma anche sceneggiatura di ferro (dei coniugi Earl e Pamela Wallace e di William Kelley). E la fotografia di John Seale, ispirata ai colori della pittura fiamminga, è una gioia per gli occhi. Se ricordate gli anni ottanta solo per I predatori dell'arca perduta, I Blues Brothers e Ghostbusters, vi consiglio caldamente di recuperare questo film.
L'incipit di Witness di Peter Weir è puramente thriller: un delitto, un poliziotto che si imbatte in un’indagine più grande di lui, una vedova e un bambino in pericolo...
All'epoca (1984), un thriller era esattamente quello che il regista stava cercando. Weir racconta che, amareggiato dal blocco della lavorazione di The Mosquito Coast, non voleva restare fermo. Aveva bisogno di un progetto. Witness - una sceneggiatura di Earl & Pamela Wallace e William Kelley - gli sembrava il copione giusto: un solido film di genere, avvincente, senza grandi problemi produttivi. Una passeggiata, per il regista di film intensi come Picnic a Hanging Rock, Gallipoli, Un anno vissuto pericolosamente. E poi il produttore era un tipo affidabile quanto pragmatico come Edward S. Feldman. La star coinvolta era nientemeno che Harrison Ford, reduce da Blade Runner. Una volta scritturata una giovane attrice esordiente, Kelly McGillis, sembrava bell’e pronto il prodotto hollywoodiano più classico. Ma Witness sarebbe diventato ben altro.
A prima vista, lo script dei Wallace e di Kelley appare a Weir come il tipico poliziesco basato sul concetto del “pesce fuor d’acqua”. La novità - dentro uno schema ultraclassico - è l’ambientazione insolita, quella della comunità Amish, un insieme di fattorie sparpagliate in una vallata della Pennsylvania che sembra ferma all’ottocento. Il rigido credo Amish non ammette la luce elettrica, né il telefono, né le automobili. Gli Amish si spostano su carri trainati da cavalli.
Man mano che Weir soppesa la sceneggiatura, però, si accorge che il concetto del “pesce fuor d’acqua” è riduttivo. Qui c’è qualcosa di più.
Book, il detective venuto dalla metropoli, è costretto dalle circostanze a integrarsi in un mondo che non gli appartiene. Veste abiti senza bottoni (“i bottoni sono frivoli”, gli spiega Rachel), si alza di buon’ora per mungere le mucche, lavora il legno, prende parte alla costruzione di un fienile. Reagisce come reagiremmo tutti noi: dapprima con fastidio, poi con curiosità... finché balena davanti ai suoi occhi la possibilità di un altro modo di vivere. Witness contiene una tematica particolarmente cara al regista di Picnic a Hanging Rock e L’ultima onda: quella della contrapposizione di due mondi. “Civiltà” (tra virgolette) e Natura. La violenza delle metropoli e un mondo arcaico che rasenta l’utopia.
Weir dipinge la comunità Amish con un misto di sconcerto e affettuosa ironia, che alla fine - per il detective Book e per lo spettatore - si trasforma in una sorta di fascinazione. Nel film il culmine di questo percorso psicologico è la scena della costruzione di un fienile, che impegna praticamente tutta la comunità. “Nei film in genere le cose sono distrutte - commenta Weir - Ho pensato che sarebbe stato bello, per una volta, far vedere qualcosa che viene costruito”.
Si è parlato di influenze di John Ford nella rappresentazione del mondo rurale di Witness, e non a sproposito. C’è indubbiamente qualcosa di “fordiano” nella rappresentazione di una comunità unita intorno a un lavoro collettivo che assume quasi la sacralità del rito (ben sottolineata dalla maestosa musica di Maurice Jarre). Come “fordiani” sono anche i piccoli tocchi ironici nel rapporto di rispettosa rivalità fra Daniel - il corteggiatore di Rachel - e Book. (“La sua ferita va meglio adesso?” “Sì, molto meglio” “Benissimo. Così può tornarsene a casa.”).
Ma l’asse portante di Witness è la storia d’amore tra John e Rachel; giocata su sguardi e silenzi per due terzi del film, ma anche sull’ironia, come nella (giustamente) famosa “scena dell’autoradio”, quando John e Rachel improvvisano un ballo sulle note di (What a) Wonderful World di Sam Cooke (scelta personalmente da Harrison Ford). Non sono che pochi minuti di serenità, interrotti dall’arrivo dell’anziano patriarca Eli. Eppure, quel momento conferma a entrambi che tra loro sta nascendo qualcosa.
Ma se nella magica Australia dei primi film di Weir la potenza della Natura piega l’uomo “civilizzato”, ora le cose sono diverse. Per quanto gli Amish cerchino di fermare l’orologio del Tempo, si trovano pur sempre nell’America del ventesimo secolo.
In Witness, un temporale notturno annuncia metaforicamente la doppia tempesta che sta per abbattersi sulla valle degli Amish: quella dei sentimenti - repressi troppo a lungo - e della violenza. Rachel tra poco scioglierà i lacci della sua cuffia, e i cattivi caricheranno le armi. Il regolamento dei conti è inevitabile. Ma il suo esito non è affatto scontato.
Lavorando in profondità, “a sottrarre”, sulla sceneggiatura - e litigando sia con gli sceneggiatori che con Harrison Ford, preoccupato del suo status di icona virile - Weir trova il finale giusto. Che ci fa alzare dalla sedia, mentre scorrono i titoli di coda, con un pizzico di commozione.
Il progetto che per il regista australiano doveva essere poco più di una vacanza si è trasformato in tutt’altra cosa. Witness è candidato a otto oscar e ne vince due (miglior sceneggiatura e miglior montaggio). A seguire, arriva una valanga di riconoscimenti praticamente per tutti gli autori e gli attori: per Weir, per il direttore della fotografia John Seale, per il compositore Maurice Jarre, per i tre attori protagonisti (Ford, McGillis, il piccolo Lukas Haas), e perfino per la direttrice del casting Diane Crittenden.
Con grande sorpresa dello stesso Weir (convinto fino all’ultimo di avere girato un “semplice” film di genere), Witness reggerà meravigliosamente alla prova del tempo, affermandosi come uno dei migliori film degli anni ottanta, un piccolo gioiello di equilibrio e di misura. Thriller, ma anche storia d’amore a ciglio asciutto. Film “popolare”, capace di avvincere e di emozionare, ma anche prova “autoriale” di un regista che sa riassumere in una sola inquadratura trenta righe di dialogo. Film “di regia”, ma anche di attori: con un Harrison Ford mai più così misurato e intenso, e una Kelly McGillis indimenticabile.
Sarebbe molto difficile, oggi, concepire un film così. Intanto, sarebbe difficile trovare una star all’altezza di Ford (forse il solo Russell Crowe, ma con qualche chilo in meno). Sarebbe ancora più difficile trovare uno sceneggiatore interessato a scrivere una storia che intrecci thrilling e sentimento. E probabilmente sarebbe impossibile trovare un regista capace di unire due generi armonizzandoli, e non estremizzandoli in un pastiche a uso e consumo di un pubblico di adolescenti.
A distanza di più di vent’anni dalla sua uscita nelle sale, Witness ci appare un po’ come appare la comunità Amish agli occhi di John Book: il reperto un altro secolo (e, letteralmente, il film lo è). Lo rivediamo con l’ironia affettuosa dello spettatore smaliziato, assuefatto a ben altri ritmi narrativi. Ma anche con nostalgia per l’idea di un "bel cinema" scomparso, oggi tristemente relegato nel cantuccio dell’utopia.
Se non avete visto il film, non vi importa degli spoiler e volete sapere tutto sulla sceneggiatura da oscar dei Wallace e di Kelley, c’è un bell’articolo di David S. Cohen (tradotto da Alberto Cassani) sul sito cinefile.biz, alla pagina http://www.cinefile.biz/witness.htm