venerdì 25 settembre 2015

VOGLIO LA TESTA DI GARCIA (agosto 2013)

Col tempo i gusti cambiano. Un film rivisto a distanza di anni non ci dà più le stesse sensazioni della prima visione. Ma i film di Sam Peckinpah li rivedo regolarmente, e ogni volta mi sembra di cogliervi qualcosa in più. Voglio la testa di Garcia, il film più cupo e disperato firmato dal regista californiano, è uno dei miei preferiti, insieme al Mucchio Selvaggio e a Sfida nell'Alta Sierra. Due anni fa rividi il film su Sky e scrissi questo pezzo.  

  
Un ricco fazendero messicano noto come El Jefe mette una taglia sull'uomo che gli ha sedotto la figlia, Alfredo Garcia. Lo vuole vivo o morto. Nonostante lo spiegamento di forze disposto da El Jefe per la caccia, il seduttore è introvabile. Finché entra in scena Benny, un pianista squattrinato e disposto a tutto, che ha la soffiata giusta: Alfredo Garcia – che ha avuto anche una relazione con la donna di Benny, Elita – è morto. Benny ha un’idea. Aprire la tomba, decapitare il cadavere e portare agli uomini del Jefe la testa di Garcia. Ma quando Benny arriva al cimitero insieme a Elita, qualcosa va drammaticamente storto. E quello che doveva essere il colpo della vita per Benny diventa un cammino di vendetta punteggiato da cadaveri... 

Difficile parlare di Voglio la testa di Garcia senza tirare in ballo le vicende biografiche del regista Sam Peckinpah, che arriva a dirigerlo dopo la catastrofe di Pat Garrett e Billy the Kid, sottrattogli dai produttori e sottoposto a un drastico rimontaggio. Fingiamo di non sapere che Peckinpah riversò in questo film tutta la sua frustrazione e la sua rabbia. E, non da ultimo, la consapevolezza di avere probabilmente imboccato un tunnel senza uscita. Peckinpah lavorerà ancora per dieci anni (Osterman Weekend, il suo ultimo film, è del 1984), ma Voglio la testa di Garcia sarà l'ultimo film realmente “suo”, cioè l'ultimo su cui il regista avrà il controllo fino in fondo. 

Anche considerando queste vicende, comunque, è difficile parlare di un film che attraversa il genere – anzi, diversi generi – ma non vi si inserisce completamente. Il noir prima di tutto, per il protagonista maledetto (ma senza dark lady) consacrato a un tragico destino. Il western, per i paesaggi e per i regolamenti di conti con la pistola, il road movie per il lungo cammino percorso dal protagonista, segnato da una scia di sangue. Peckinpah proietta questa vicenda feroce dentro una dimensione tutta sua. La vicenda si svolge in un Messico rurale così polveroso e inerte da apparire surreale, dove il tempo sembra un meccanismo congelato, rimesso in movimento solo da furiosi scoppi di violenza.

L' “eroe” è un perdente assoluto. Benny (Warren Oates) è un pianista squattrinato. Lo conosciamo sul lavoro: un locale di second’ordine dove il nostro suona Guantanamera per i turisti annoiati, con un entusiasmo così fasullo da suscitare istantaneamente la nostra pena.

Che tipo di donna può stare con un uomo del genere? Elita (Isela Vega) vive anche lei di espedienti. Anche lei cerca di campare con la musica, suona la chitarra e canta, ma si capisce chiaramente che all'occasione arrotonda in altri modi. Alfredo Garcia, il seduttore della figlia di El Jefe, è passato anche nel suo letto. Benny non vede la cosa di buon occhio, ma gli occhi li chiude tutti e due, conscio del fatto di non avere molto da offrire a Elita, se non promesse.


Questi due perdenti, non più giovani, che dal mondo non hanno avuto nulla, si sono aggrappati l'uno all'altra. Bevono insieme, scherzano, fanno l’amore in una stanza piena di pulci. Si capisce chiaramente che, tra i due, Elita è quella più concreta. Dubita che la relazione con Benny possa portare a qualcosa di sicuro e di stabile, ma si sforza di crederci. Benny, invece, ci crede davvero. Per questo è così determinato a riscuotere la taglia sulla testa di Garcia. L’idea di profanare la tomba e di decapitare un cadavere – e delle difficoltà “tecniche” che comporta il trasporto di una testa in decomposizione in una terra arroventata dal sole – non lo spaventa. E a Elita, che giustamente inorridisce al solo pensiero, risponde: - Cosa c’è di sacro in un cadavere? Cosa c’è di sacro in te o in me?

Prima di arrivare alla tomba di Garcia, però, un incidente turba il viaggio. Benny ed Elita incappano in due biker malintenzionati. Mentre uno tiene Benny sotto la minaccia di una pistola, l’altro si apparta con la donna. Poco importa che alla fine non trovi il coraggio di violentarla. Benny, che è stato tiratore scelto nell’esercito, è pronto ad agire. Per lo spettatore, la scena, del tutto sconnessa dal plot principale, sembra gratuita. In realtà ci fa capire chiaramente che Benny è una bomba innescata. Ed esploderà: perché, dal momento in cui la tomba di Alfredo Garcia viene profanata, la situazione precipita. Il piano di Benny diventa una cavalcata all'inferno, in cui la sua compagna – e unica audience dei suoi monologhi – sarà la testa mozzata, avvolta nella federa di un cuscino e coperta di pezzi di ghiaccio per rallentare la decomposizione. Benny spazza via gli avversari come birilli, inebriato dalla sensazione dell’invincibilità. Ma forse solo un totale perdente può illudersi che “nessuno può perdere per sempre”.


A differenza di quanto accade nel Mucchio Selvaggio, in Voglio la testa di Garcia non c'è obiettivo che venga raggiunto, per quanto furiosamente perseguito. Ogni sforzo è inutile, e lo è perfino la morte, che non offre la possibilità di un'estrema redenzione. Non importa quanto tu sia ricco e potente, né quanto tu sia povero e affamato. C'è solo la conclusione inevitabile di una strada segnata, che non conosce svolte. Quello che Peckinpah manifesta qui è un pessimismo radicale, che sarebbe insostenibile e perfino ripugnante se non fosse riscattato da uno stile e da una visione artistica senza compromessi. Perché non c’è nessun ghigno sardonico nella rappresentazione di questo vortice di distruzione. Non c'è traccia di compiacimento nemmeno nelle sparatorie, qui non coreografate come nel Mucchio Selvaggio (o nel successivo La croce di ferro), e anzi spesso raffreddate dall’uso di campi lunghi.

Forse registi come i fratelli Coen avrebbero riversato litri di sarcasmo al vetriolo sui loro protagonisti. Ma per constatare quanto Peckinpah e il suo co-sceneggiatore Gordon T. Dawson si tengano lontani da questo approccio (e da qualsiasi tentazione di macchiettismo), basta vedere con quale sobrietà è rappresentata la coppia di killer gay interpretata da Robert Webber e Gig Young. C'è, da parte del regista, una visione morale nel senso più profondo della parola: nel senso di una pietas per i protagonisti perseguita con rigore, e tanto più efficace quanto più asciugata da ogni possibile sentimentalismo. Una visione che rendere dolorosamente verosimili – e quindi vicini a noi - due perdenti totali.

Una buona parte del merito, è doveroso dirlo, va anche a Warren Oates e Isela Vega. I due tratteggiano la coppia di derelitti sconfitti dalla vita con una capacità di adesione e una verosimiglianza impensabili in star blasonate. Che questo realistico mood sia dovuto a talento e disciplina, alla consapevolezza di avere trovato una parte da protagonisti assoluti che non si ripeterà, o soltanto alla tensione di un set arroventato dal caldo e dalle intemperanze del regista, è impossibile saperlo. E in ogni caso, vista l’efficacia del risultato finale, saperlo conterebbe poco.

C’è un momento, nel film, in cui Benny sta per lasciare definitivamente l’alloggio che divideva con Elita. Esita un momento sulla soglia della camera da letto. Si appoggia allo stipite e china la testa, come se le forze gli mancassero all’improvviso. La macchina da presa, che lo seguiva, si ferma e rimane immobile al di qua della porta, finché l’uomo si scuote, risolleva la testa ed esce. Sul muro sono appese cartoline da turisti. Lo scenario di una vita normale, quella che Benny ed Elita sognavano. Per qualche istante la stessa inquadratura racchiude insieme il sogno e la realtà. E la realtà è un uomo solo, sporco di fango e di sangue, che si allontana dal sogno per andare incontro al suo destino.


Difficile dire se si tratta di una simbologia cercata o trovata casualmente grazie a un movimento di macchina. Certo è che riassume bene il messaggio straziante del film. Forse anche più dell’ultima, rabbiosa inquadratura, che inchioda quel destino fatale in un frame freezing, un attimo prima dei titoli di coda.