“Se mi aspetta una carriera nel fumetto, spero che sia come quella di Bob Dylan”. Così diceva, più di vent’anni fa, un giovane autore di nome Frank Miller. Non parlava di fama, successo e denaro; si augurava qualcosa di ben più ambizioso: acquisire una “voce”, una identità artistica indiscutibilmente originale, anche pagandola cara in termini di consenso. E in effetti è successo: Miller ha lasciato il segno nel medium percorrendo una strada tutta sua.
Ultimamente Miller è tornato alla ribalta delle cronache non per un lavoro fumettistico, ma per una sparata sul suo blog contro i manifestanti di “Occupy Wall Street”. E in aggiunta al suo sconcertante (eufemismo per “deludente”) debutto registico con The Spirit e a una latitanza fumettistica di molti anni, interrotta dal recente e discusso Holy Terror, questa sparata reazionaria è sembrata a molti la prova definitiva che Miller è un artista ormai “bollito”.
Terminato di leggere Holy Terror, io della “bollitura” di Miller non sono affatto sicuro. Intendiamoci, non sono nemmeno sicuro che Holy Terror sia un “bel” fumetto; ma non mi sento di liquidarlo, con una scrollata di spalle, come il flop di un artista in crisi, il delirio senile di un reazionario o un lavoro tirato via alla bell’e meglio per “tornare nel giro”.
Anche perché Holy Terror è con ogni evidenza un lavoro meditato e fermamente voluto, sostenuto da un impegno grafico che Miller non esibiva almeno dai tempi di 300.
Come molti sanno, Holy Terror doveva essere una storia di Batman. Poi, a lavoro iniziato, Miller ha fatto marcia indietro. E quindi Gotham City è diventata Empire City, la Statua della Libertà è diventata Lady Justice, e Batman e Catwoman sono diventati The Fixer (Il “Riparatore”, una sorta di Ispettore Callaghan in calzamaglia), e Cat Burglar.
La trama di Holy Terror è assai lineare: una serie di sanguinosi attentati suicidi ad opera di Al Qaeda scuote Empire City. Mentre le vittime aumentano di ora in ora, il terrore cresce e polizia ed esercito sono impotenti, il supereroe The Fixer decide di chiudere personalmente la partita con i terroristi. E, con l’aiuto della superladra Cat Burglar e di uno spietato ex agente del Mossad, ci riuscirà.
Per raccontare questa storia Miller ripesca il formato “orizzontale” di 300. Ma in 300 il formato risultava una sorta di cinemascope cartaceo – con i colori di Lynn Varley – che sembrava scaturire dalle necessità della rappresentazione "orizzontale" di paesaggi rocciosi ed eserciti in marcia.
Qui invece Miller sembra servirsi del formato per disintegrare lo spazio. O forse per dilatarlo oltre i confini della tavola, lasciandone i contorni alla percezione del lettore. Non ci sono volumi, ma un bianco e nero ancora più “estremo” di quello di Sin City, trattato in tutti i modi possibili, a volte “graffiato” letteralmente e a volte contrastato in maniera così netta da risultare quasi abbacinante (soprattutto nell’ultima parte). Ci sono anche inserti di colore. In alcuni casi mi sembrano un semplice vezzo (le labbra viola della terrorista), ma nell’ultima parte il verde delle maschere è puramente funzionale al racconto (senza il colore, vi sfido a capire che i personaggi hanno una sorta di maschera che protegge naso e bocca).
Welcome to Miller City!
Miller aggredisce la tavola e ne fa a pezzi la "griglia" con la stessa violenza con cui combattono i suoi personaggi. Col procedere del racconto, il “graffiato” che caratterizza le prime tavole sparisce gradualmente, i contrasti di bianco e nero si fanno più netti. Le tradizionali vignette compaiono occasionalmente, e a volte sono poste in diagonale rispetto alla pagina. E due tavole non offrono altro che quadratini vuoti, a indicare la disintegrazione dei cittadini di Empire City in un’esplosione.
Miller ha sempre sperimentato parecchio, a partire da Ronin, ma qui mi sembra che anche rispetto a Sin City gli esperimenti grafici siano più marcati (e tengono presente più che mai la lezione di classici sudamericani come Breccia e Muñoz, agli antipodi del mainstream statunitense). Il risultato può non essere sempre felicissimo, ma dal punto di vista grafico Holy Terror offre parecchio. A dimostrazione che Miller è tutt’altro che un autore “seduto”, e che passata la boa dei cinquant’anni è ancora capace di giocare coi pennelli.
Più complesso è il discorso sull’aspetto narrativo.
Così come lo spazio, in Holy Terror anche il tempo non ha più confini precisi. E non li ha nemmeno il racconto. Miller accosta e incastra momenti, volti, frammenti di scene, lasciando che sia il lettore a trovare il ritmo del racconto.
Impone brusche accelerazioni, dilatazioni, ripetizioni – lunghe scene di dialogo non mostrano altro che le teste dei personaggi – e fulminee digressioni. Presenta i consueti character pittoreschi (come l’ex agente del Mossad) e li elide dal racconto dopo poche vignette. A tratti sbatte la violenza sul naso del lettore e a tratti la nasconde (la tremenda fine dei terroristi avviene fuoricampo ed è raccontata solo coi dialoghi), dentro una dinamica d’azione depurata da ogni possibile connotato realistico e verosimile quanto un film di James Bond. Miller City, insomma.
Holy Terror non è un fumetto “di scrittura”, una di quelle storie con una sceneggiatura di ferro, che affidate a qualsiasi disegnatore funzionerebbero comunque. In questo caso è impossibile, come spesso nei lavori di Miller, separare con un taglio netto forma e contenuto. Holy Terror è un’opera fortemente “autoriale”, dove la forma è sostanza; è dove la sostanza è uno statement furioso, un’invettiva contro i terroristi e contro l’ignavia di un Occidente anestetizzato dal politicamente corretto.
Negli USA Holy Terror non è stato accolto bene, e Miller è stato perfino accusato di razzismo. Per quanto mi riguarda, trovo questo tipo di accusa fuori luogo e soprattutto ipocrita. Non c’è nessun discorso sulle razze in Holy Terror, e nemmeno un discorso sullo scontro di civiltà e/o sull’Islam in generale. La parola Islam non compare nemmeno una volta nella storia. I criminali di Holy Terror non sono “gli arabi” né “gli islamici”. Sono terroristi arabi. Che sono, anche se pare non sia elegante ammetterlo, islamici.
La "diplomazia postmoderna" di The Fixer e Cat Burglar
(Parentesi: ovviamente le critiche più aspre a Holy Terror sono venute proprio dal fighettismo politicamente corretto oggetto delle bordate di Miller. La recensione di Wired ne è un esempio. E, curiosamente, se è vero che Holy Terror è un lavoro storicamente superato dalla morte di Bin Laden, le stesse considerazioni del recensore sulla inconsistenza della minaccia integralista sono superate, purtroppo, dagli inquietanti sviluppi della cosiddetta “primavera araba”).
In generale, però, ho il sospetto che sotto molte critiche si nasconda l’inconfessato rancore di due tipologie di lettore, entrambe ugualmente frustrate da Miller. Miller racconta una “normale” storia d’avventura, di genere, ma in maniera tutt’altro che mainstream; richiede al lettore una partecipazione, una disposizione a decrittare il segno, una “immersione” nel testo che in genere si riserva a storie di tutt’altro tipo, cioè non “di genere”. Ma il lettore che ama il genere – l’epicità del Dark Knight e del Daredevil Born Again, la violenza stilizzata e “fumettosa” di Sin City – cercherà invano di ritrovarlo in un bianco e nero a tratti quasi indecifrabile. Mentre il lettore “non di genere” – il lettore "alanmooriano", tanto per capirci – non troverà in Holy Terror intricate geometrie narrative né doppi livelli di lettura con risvolti metafisici, ma la rabbia di un autore per cui “il patriottismo non è un concetto datato e idealistico, ma autoconservazione”.
D’altronde, Miller aveva previsto lucidamente che Holy Terror “avrebbe offeso praticamente chiunque”. E scontentare allo stesso modo tutti è un’impresa riuscita a pochi artisti. Anche a Bob Dylan, per esempio.
La ferma reazione dell'Occidente al terrore: la violenza ci piace solo al cinema.
PS: il lavoro di Miller è dedicato alla memoria di Theo Van Gogh, regista e pubblicista olandese ucciso nel 2004 da uno studente mussulmano membro di un gruppo islamico integralista.