domenica 5 luglio 2015

CHRONICLES, L'AUTOBIOGRAFIA DI BOB DYLAN

A dieci anni dall'uscita italiana di Chronicles, l'autobiografia di Bob Dylan, ripesco l'articolo che scrissi all'epoca sul mio sito. Faccio notare che il titolo intero del libro era Chronicles - Volume One. Il Volume Two lo stiamo ancora aspettando. 




Ogni biografia di una rockstar deve pagare il tributo alla favola del rock. Deve raccontare gli inizi difficili, le prime affermazioni, il disco decisivo, quello della svolta, e poi confermare la consacrazione nel tripudio degli affetti familiari. Ma Chronicles – Volume 1, l’autobiografia di Dylan, sfugge a ogni percorso prestabilito: quando c’è di mezzo Dylan, la distanza più breve tra due punti non è una linea retta, ma una spirale. Più che una autobiografia, Chronicles è il resoconto di un viaggio interiore che procede per associazioni ed ellissi, avanti e indietro nel tempo.

Dylan prende le mosse dal suo arrivo a New York nel 1961, in quell’inverno gelido cantato in Talking New York, nel suo disco di esordio.

Inverno a New York/ il vento spruzzava neve dappertutto/ (…) il New York Times diceva che era l’inverno più freddo da diciassette anni/ ma io non avevo così freddo allora.

Che il giovane Robert Zimmermann non facesse caso al freddo è poco ma sicuro. C’era molto di più che nevischio, nell’aria della metropoli. Tutto era in movimento e cambiava velocemente, anche la musica. Il rock adolescenziale era a una svolta: la musica folk – proprio grazie a Dylan - si accingeva a riscriverne i connotati. Dopo, niente sarebbe stato più lo stesso. Il Greenwich Village – pieno di caffè, circoli letterari, ritrovi di studenti, intellettuali, artisti bohémiens, era l’epicentro di quel cambiamento epocale. Dylan – che vi arrivava nemmeno ventenne, dopo un soggiorno a Minneapolis - ne rimase ipnotizzato.
A distanza di tanti anni, il musicista offre di quel Village un ritratto vivido, ricco di squarci pittoreschi. Le nottate passate ad ascoltare la radio. La scoperta di certi libri, di certi musicisti. L’incontro con il suo idolo Woody Guthrie, minato dal morbo di Huntington e confinato in un ospedale. I primi concerti nelle coffee houses.

Ma, sorprendentemente, Dylan glissa del tutto sulla sua scalata al successo negli anni dal 1962 al 1966, l’anno dell’apoteosi, di Blonde on Blonde – disco seminale nella storia del rock – e di quell’incidente in motocicletta che segnò la fine del “primo” Dylan, quello della protesta.
Il musicista dedica molte pagine, invece, al periodo immediatamente successivo. E in particolare ai suoi tentativi di sbarazzarsi dell’etichetta di “profeta” e di “portavoce di una generazione”, termini che afferma di avere sempre detestato.


Chronicles rivela che dietro l’inquietudine di Dylan, l’insofferenza per il suo ruolo “pubblico”, si nascondeva più semplicemente l’impossibilità di conciliare la fama e la famiglia.
"Mia moglie, quando ci sposammo, non aveva idea di quello che stava per succederle..." scrive Dylan. E racconta quasi con orrore le continue intrusioni nella sua vita privata, le incursioni di sconosciuti - fans, ammiratori, detrattori e semplici curiosi - nella sua casa di Woodstock, dove si era rifugiato sperando di sfuggire all’attenzione ingorda del pubblico e della stampa.

Si può forse sorridere di questo atteggiamento da parte di un vip oggi, nell’epoca del meretricio dei reality show e degli amplessi in mondovisione su internet. Come si può legittimamente sospettare che Dylan, almeno in un primo momento, tutto facesse fuorché rifuggire le luci dei riflettori. Gli atteggiamenti eccentrici e le sue dichiarazioni provocatorie – oltre che le sue canzoni – facevano di lui un vero personaggio, alla maniera di John Lennon: insomma, l’obiettivo ideale di fans adoranti e benpensanti scandalizzati. E’ presumibile però che il ragazzotto del Minnesota si sia trovato a un certo punto in un gioco più grande di lui, e che quelle attenzioni così tanto incoraggiate gli si siano poi rivoltate contro fino a raggiungere una pressione insopportabile.

In Chronicles Dylan non dice nulla dell’incidente di motocicletta che, nel 1966, bloccò la sua parabola ascendente e che diede luogo a una ridda di voci incontrollate: banale guasto meccanico, colpa della droga, semplice distrazione, colpo di sonno, tentativo di suicidio. La verità non si seppe mai.

I dischi successivi all’incidente, Nashville Skyline (1969) e Self Portrait (1970), sembrano presentare un Dylan in piena confusione. Visti dall’esterno, appaiono come un tentativo - compiuto alla cieca - di trovare nuovi stimoli dopo l’esaurimento della vena della “protesta” e del surrealismo della “svolta elettrica”. Nella sua autobiografia Dylan spiega questi dischi in tutt’altro modo: Nashville Skyline e Self Portrait erano nient’altro che un assassinio a sangue freddo del Dylan precedente, cinicamente architettato dal “nuovo” Dylan: lo sforzo finale per liberarsi del ruolo di “profeta” e dei vecchi fans.

Spiegazione non nuova, già offerta in qualche intervista anni fa, e da prendere con le proverbiali pinze almeno per Nashville Skyline: difficile pensare che Dylan abbia coinvolto in un disco-parodia il maestro Johnny Cash (con cui duetta in Girl from the North Country) solo per indispettire critici e fans.

Nel libro, Dylan ammette candidamente di essere “tornato in pista” in maniera abbastanza estemporanea: nel 1970 Archie MacLeish, poeta e autore teatrale, gli chiede delle canzoni per una piéce dal titolo Scratch. La collaborazione poi non si concretizza, ma dagli incontri con MacLeish Dylan esce col materiale per il disco New Morning. (E, non manca di notare Dylan con una punta di ironia, Scratch terrà il cartellone per due giorni soltanto).

Il giorno annunciato dal “nuovo mattino”, nella realtà, tarderà ad arrivare. Dopo New Morning Dylan è in stallo, e per rivederlo in forma occorrerà aspettare anni, fino all’uscita dello struggente Blood on the Tracks (1975). Ma anche di questo in Chronicles non c’è traccia.

Dylan compie invece un salto cronologico di ben diciassette anni, dall’alba degli anni settanta alla fine degli anni ottanta, e ci racconta un altro periodo di stallo, quello della tournée insieme a Tom Petty. Gli album di quegli anni sono quasi imbarazzanti, a cominciare dai titoli autoflagellanti: Knocked Out Loaded (“Completamente K.O.”), Dylan & the Dead (lett. “Dylan & I Morti”, in realtà è il disco live con il gruppo dei Grateful Dead), Down in the Groove (“A fondo nel buonumore”).

Costretto all’immobilità per un incidente alla mano (di cui non sono rivelati i dettagli), Dylan dice senza mezzi termini: “La cosa che non volevo fare assolutamente era scrivere canzoni: non ne scrivevo ormai da molto tempo, comunque. Avevo smesso di farlo; semplicemente, l’idea non mi esaltava più. (…) Non mi aspettavo che avrei scritto qualcosa, mai più.”

In realtà la crisi è il prologo a un altro “nuovo mattino”: quello che porterà Dylan all’incontro col produttore Daniel Lanois - per intercessione di Bono degli U2 – e alla realizzazione del bellissimo Oh, Mercy. Una manciata di nuove canzoni, racconta Dylan, sgorga di getto. E, presi gli accordi con Lanois, Dylan si reca a New Orleans per registrare.

Ma la realizzazione di Oh, Mercy si rivelerà tutt’altro che facile, fin dall’inizio. Alle sedute di registrazione dell’album Dylan dedica un ampio capitolo di Chronicles, raccontando i contrasti con Lanois e le proprie incertezze.

“Non posso dire se è il disco che ognuno di noi due voleva. Le dinamiche umane giocano un ruolo molto importante, e comunque avere quello che vuoi nella vita non sempre è la cosa più importante.”

Ironicamente, Oh, Mercy, il più bel Dylan da anni (nonostante l’omissione di un pezzo splendido come Series of Dreams), non ebbe un grande riscontro di pubblico. Dylan rientrò in classifica con il trascurabile album dal vivo Dylan & The Dead e con il disco dei Traveling Wilburys, il supergruppo che vedeva Dylan insieme a George Harrison, Roy Orbison e Jeff Lynne.

Scrive Dylan riguardo a Oh, Mercy: “Il disco che io e Danny (Lanois, ndr) avevamo appena fatto ebbe buone recensioni, ma le recensioni non fanno vendere i dischi.”

Chiuso il capitolo, un altro balzo indietro nel tempo, stavolta al 1960, il periodo di Minneapolis. Un periodo fondamentale per Dylan, perché è là che avviene il primo “incontro” – attraverso i dischi – con Woody Guthrie. Poco dopo, a New York, un universo si spalanca davanti al giovane Bob: non solo grazie a Guthrie, ma anche a musicisti come Jack Elliott e Robert Johnson. Per non parlare della vera e propria epifania durante l’ascolto di Jenny dei Pirati, di Brecht e Kurt Weill, che rivela a Dylan nuovi orizzonti della poesia in musica.

Il resto – l’incontro con John Hammond e la firma del contratto con la Columbia – è Storia. E, bisogna dirlo, Dylan la racconta con grande semplicità, chiudendo il libro proprio in quel momento, all’alba della decade dei sixties.

Alla fine, due cose colpiscono di Chronicles. La prima è la qualità della prosa, a volte involuta, ma spesso incredibilmente vivida ed efficace. La seconda, più inaspettata, è la serenità che ne traspare.

Dylan ha sempre avuto un carattere ombroso: ha spesso infierito sulla propria musica e la propria statura di artista con scelte discutibili, per non dire strampalate. Non pago di aver massacrato molte belle canzoni con performances scadenti e incisioni corrive, ha ceduto i diritti di bellissime canzoni per delle pubblicità, ha prodotto e interpretato il delirante film Masked & Anonymous, è comparso in uno spot per una celebre linea di lingerie (!). In effetti, il più feroce dei critici non si è accanito contro Bob Dylan quanto Bob Dylan stesso.

Ma di tutto questo furore la sua autobiografia non reca traccia. E se le autobiografie sono un’occasione ghiotta per regolamenti di conti postumi (con colleghi, fans, manager, critici, ex coniugi), Chronicles fa eccezione. Ormai ultrasessantenne (compirà 64 anni in maggio), Dylan non ha una parola ingenerosa per nessuno. E sembra ormai rappacificato con la propria musica.

Le parole con cui Dylan descrive il mondo che si annunciava nel lontano 1961 rivelano una consapevolezza che, più che del ventenne di allora, è propria del Dylan di oggi: la consapevolezza che quel “mondo tempestoso, i cui contorni erano screziati dai fulmini, non era certo governato da Dio. Ma neppure dal Diavolo.”