I cavalieri dalle lunghe ombre (The long riders, 1980) di Walter Hill può contare su un’idea di casting geniale: i personaggi del film che fra di loro sono fratelli sono interpretati da attori che sono realmente fratelli. Dunque, i fratelli Keach interpretano i fratelli James, i fratelli Carradine sono gli Younger, i fratelli Quaid i Miller, e i fratelli Guest i Ford. Le intuizioni brillanti finiscono qui, purtroppo. Vero è che Hill e i suoi quattro co-autori (troppe mani per non rovinare la zuppa) forniscono la versione cinematografica più fedele della parabola dei fuorilegge, e sicuramente tengono presente La banda di Jesse James, il film firmato otto anni prima da Philip Kaufman: Jesse James ha un ruolo di secondo piano. Rimane una figura enigmatica, che James Keach interpreta con un’espressione vagamente allucinata, rendendo incomprensibile il perché Jesse sia considerato il leader della banda. A emergere, invece, è anche in questo caso Cole Younger. David Carradine dà vita a un Cole sornione e disincantato, ma che, a differenza di quello rappresentato da Kaufman, non nutre ambizioni da leader.
Purtroppo, tutto ciò non basta. Per quanto sia apprezzabile la ricostruzione storica, e per quanto sia impeccabile il trattamento dei tòpoi del
genere (assalto al treno, duello all’arma bianca, sparatoria
finale), la storia ha un andamento episodico che, mettendo in scena a
turno i vari personaggi, non rivela un asse portante nel
racconto. Non basta, per questo, neanche la presenza di personaggi
femminili, unanimemente dalla parte dei fuorilegge, da mamma James
alla giovane Beth, che lascia il pavido Ed Miller per Jim Younger.
Curiosamente (ed è una contraddizione interessante), i banditi sono alla ricerca di una rispettabilità borghese, per quanto di facciata, con casa e figli. Va controcorrente il solo Cole Younger, che però rifiuta di accasarsi con Belle Starr (Pamela
Reed) "perché - le spiega diplomaticamente - sei una puttana".
Come nel film di Kaufman (e come in effetti avvenne nella realtà) la Legge non fa bella figura. Gli uomini di Pinkerton uccidono prima un giovanissimo Younger estraneo alla banda, e poi muore – anche se accidentalmente – il fratellino quindicenne di Jesse, mentalmente ritardato.
Il funerale del piccolo Archie James
Naturalmente, la banda non lascerà queste morti impunite. Al detective Rixley (un efficacissimo James Whitmore jr) non resta che contemplare i cadaveri alternarsi sui tavoli dell’obitorio, fino a quando, rassegnato, riuscirà a togliere di mezzo Jesse James solo convincendo i Ford a tradirlo.
Anche il film di Hill si conclude con l’omaggio dell’uomo comune ai banditi: al passaggio del treno che riporta nel Missouri la salma di Jessie James, un contadino si toglie il cappello.
A differenza della vitalità debordante e un po’ sciamannata dei banditi di Kaufman, i fuorilegge di Hill mostrano una somiglianza maggiore con i long riders della realtà: uomini duri, introversi, legati da vincoli di sangue più forti di qualunque legge, incapaci di guardare il mondo oltre la canna della pistola. Il regista asciuga fino all’osso la loro rappresentazione filmica, ma la sterilità rappresentata diventa anche sterilità narrativa. Non c’è pietas per queste vite bruciate, e nemmeno un’indignazione “politica” per lo stupro del Sud da parte degli yankees vittoriosi, ma solo la contemplazione impassibile di una fine programmata.
Insomma, al di là di un paio di scene efficaci (la sparatoria finale è da manuale di cinema), c’è poco di cui appassionarsi e per cui palpitare.
Non c’è morale in questa storia, se non quella che James Keach canta nella canzone Wildwood Boys (presente nella colonna sonora su disco, ma non nel film): only the strong will survive/ survival is living the longest/ but nobody gets out alive”.
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