Ogni volta che un film western mi delude (quindi due o tre volte all’anno da almeno quindici anni) devo rimediare con un bel western. Che può essere un classico o no. Se non è un classico, è Broken Trail – Un viaggio pericoloso (2006), film televisivo di Walter Hill, finora superato nella mia personale top ten solo da Terra di confine (Open Range) di Kevin Costner, di cui Robert Duvall riprende lo stesso personaggio (pur con altro nome): il vecchio cowboy che ha passato una vita in sella. E che ora percorre l’ultima, insidiosa pista per raggranellare quanto basta ad assicurarsi una vecchiaia serena.
In Broken Trail l'anziano cowboy si chiama Print Ritter. La sorella di Print, in rotta col figlio, è morta e ha lasciato al solo Print casa e terreni. Ma Print non vuole sottrarre l’eredità al nipote Tom (Thomas Haden Church), e gli propone un patto: vendiamo tutto, compriamo cinquecento cavalli e andiamo a venderli nel Wyoming. Col ricavato ci sistemeremo a vita. Tom accetta, e i due cominciano il viaggio dall’Oregon al Wyoming. Ma sono costretti a rivedere i loro piani quando incontrano un ruffiano (James Russo) che sta scortando un altro tipo di mercanzia: cinque ragazze cinesi, destinate a un bordello di minatori, che non parlano una parola di inglese...
Su un canovaccio lineare, Hill e lo sceneggiatore Alan Geoffrion costruiscono un western che svolge temi classici dentro un impianto realistico, passando con naturalezza da un registro all’altro. C’è la stessa sobrietà nella rappresentazione di una violenza “necessaria”, mai esibita volgarmente, che nella rappresentazione dei sentimenti, distillata con un leggero tocco di umorismo.
Broken Trail ha tutto ciò che ci si può aspettare da un western. C'è l’amicizia virile, il coraggio e l’onore, e un tema di base caro a Clint Eastwood: quello della “famiglia allargata” che si costituisce lungo la strada. Lo sfondo storico è quello della frontiera, una frontiera che alla fine dell’Ottocento è ormai quasi raggiunta: ma ancora ci sono città senza legge dove i conti si regolano con la pistola, popolate da avventurieri in cerca di fortuna, e da immigrati che vi trovano la morte dei loro sogni. Tutto ciò mentre procede inesorabile la graduale cancellazione dei nativi americani, perpetrata non solo con le armi, ma con le malattie.
Walter Hill ha sempre fatto western, anche quando girava thriller urbani (qualcuno ricorda che l’autista di Driver non ha un nome, ed è chiamato semplicemente “cow-boy”?). Ma Broken Trail è il suo primo lavoro in cui il paesaggio non è il Territorio ostile à la Robert Ardrey attraversato dai Guerrieri della palude silenziosa, né lo scenario impassibile che protegge la fuga degli Apache di Geronimo o dei Long Riders della banda James. È un luogo di suggestiva bellezza dove è possibile fermarsi a contemplare il cielo notturno acceso di stelle, dove apprezzare una piccola gioia come immergere i piedi stanchi nell’acqua fresca, dove sognare la libertà e un futuro migliore.
Nella filmografia western degli anni duemila Broken Trail fa storia a sé. Senza negare l’iconografia tradizionale e i luoghi comuni del genere, ma anche senza ignorarne le rivisitazioni realistiche postsessantottine, Hill e lo sceneggiatore Geoffrion si tengono alla larga dalla decadenza tombale del western contemporaneo. E anzi, riaffermano testardamente il valore etico del genere, nell’affermazione di un sentimento di solidarietà umana al di sopra di ogni differenza etnica e linguistica: l’unica risorsa possibile davanti a sfide che mettono in palio il nostro destino.
Doveroso spendere qualche parola per cast e crew, e cominciamo col dire che il film ha una confezione di lusso. Direttore della fotografia (Lloyd Ahern) e montatori (Freeman Davies e Phil Norden) sono collaboratori di Hill da anni. Alla colonna sonora non c’è il fido Ry Cooder, ma altri due big: Van Dyke Parks (collaboratore, tra gli altri, dello stesso Cooder) e David Mansfield (basta un titolo: I cancelli del cielo).
Infine, gli attori. Se può apparire superfluo sottolineare l’ennesima grande prova di Duvall, il resto del cast non gli è da meno. Bravo e convincente il co-protagonista Thomas Haden Church, se la cavano bene anche le giovani interpreti “cinesi” (in realtà canadesi; la sola Gwendolyn Yeo è nata in Asia), e in ruolo un po’ defilato – il cow-boy violinista che affianca i due protagonisti - c’è il giovane Scott Cooper, altro nome familiare per il western: è il regista di Hostiles. Efficacissimi anche i cattivi, ma più dei laidi personaggi di Chris Mulkey e James Russo resta impressa la corpulenta quanto spietata ruffiana Big Rump Kate, interpretata da Rusty Schwimmer. Ma è Greta Scacchi il cuore del film. Il suo personaggio è quello di Nola, prostituta picchiata e sfregiata dal suo ex amante, che si aggrega ai nostri per sfuggire alla vendetta di lui. In un finale struggente davvero insolito per un film western, sarà lei a ricordare a Print – e a noi spettatori – che, anche se si raggiunge indenni la meta, si rimpiangerà sempre qualcosa che è andato perduto lungo la strada.
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