sabato 29 agosto 2015

QUANDO BONVI RACCONTO' TSUSHIMA

Ho ritrovato una vecchia recensione, scritta nei primi anni duemila, di uno dei più bei lavori di Bonvi.


A metà degli anni settanta il fumetto europeo è scosso da un sussulto d'orgoglio: si comincia a pensare che il fumetto non è più "roba da bambini", ed è degno di comparire sugli scaffali delle librerie senza sfigurare. Sergio Bonelli si lascia contagiare dall'entusiasmo e vara una collana di volumi eleganti, di grande formato e con copertina cartonata. La collana si intitola Un uomo un'avventura, e si regge su un'idea semplice quanto efficace: raccontare storie d'avventura con protagonisti di fantasia, sullo sfondo di eventi reali.

Gli autori contattati costituiscono il gotha del fumetto italiano, dai rappresentanti di quello che allora era chiamato "fumetto d'autore" (Pratt, Manara, Crepax, Toppi) ai più stretti collaboratori di Sergio Bonelli (Castelli, D'Antonio, Berardi & Milazzo...) Più, inaspettatamente, un autore umoristico: Bonvi. Cosa ci faccia il Bonvi in mezzo a tanti illustri rappresentanti del fumetto realistico avventuroso, non si capisce bene, a prima vista. Ma si capisce dopo avere letto il volume: perchè L'uomo di Tsushima non solo è uno dei più bei volumi della collana, ma anche una delle più belle cose mai fatte dall'autore delle Sturmtruppen, e zenith della prima fase della sua carriera.

Al suo apparire, nel 1977, la storia di Bonvi fu veramente sorprendente per diversi motivi. Prima sorpresa: Bonvi scelse un conflitto poco familiare al grande pubblico, cioè la guerra russo-giapponese, il cui esito fu deciso dalla battaglia di Tsushima.

Seconda sorpresa: il volume, che raccontava una storia realistica - ancorché con un risvolto sovrannaturale - era disegnato in stile perfettamente "bonviano", cioè umoristico. Esattamente come le Sturmtruppen.

La scelta, apparentemente bizzarra - Bonvi avrebbe potuto benissimo scrivere solo la sceneggiatura, e affidare i disegni a un collega - si rivelò poi incredibilmente efficace: in realtà Bonvi aveva realizzato il volume più "autoriale" dell'intera collana, dal momento che L'uomo di Tsushima riassume tutte le tematiche care all'autore emiliano.

Lo sfondo storico è quello del conflitto russo-giapponese ai primi del novecento. E in particolare si fa riferimento alla folle missione voluta dallo zar Nicola II. Per soccorrere la flotta bloccata dai giapponesi a Port Arthur, lo zar mobilitò le sue malridotte unità navali del Baltico, che dovettero navigare per venticinquemila miglia per arrivare a destinazione. Durante il lunghissimo viaggio Port Arthur cadde, ma lo zar ordinò che la flotta proseguisse. Giunte nel golfo di Tsushima, le navi russe furono attaccate e distrutte dai giapponesi. Dopo quella sconfitta il malcontento antizarista aumentò, e si propagarono i moti rivoluzionari, che sarebbero poi culminati nella rivoluzione di ottobre.

La storia di Bonvi in realtà non ha un protagonista vero e proprio, cioè un eroe che tiene la scena fino alla fine. La storia parte con Jack London che incontra il suo vecchio amico Bogdanov, ora ufficiale della flotta russa, sulla costa africana, dove le navi russe dirette a Port Arthur sono ferme per fare scorta di carbone. Bogdanov riparte, e non farà più ritorno.

Tre anni dopo, a Bahia, durante la notte di San Silvestro, London incontra una medium che gli parla con la voce di Bogdanov. E London ascolta la vera storia della battaglia di Tsushima dalla voce dell'amico morto...

Come si può notare, non c'è un vero e proprio sviluppo avventuroso. La trama presenta un lungo antefatto e si interrompe sul vivo, spezzando letteralmente a metà la storia. La battaglia è poi raccontata in un lungo flashback che, ovviamente, non può avere un epilogo a sorpresa.

A Bonvi non interessa costruire un intreccio basato sui colpi di scena, ma svelare i risvolti grotteschi dei giochi di potere, la meschinità umana alla base della Storia ufficiale. La disfatta di Tsushima fu il culmine di una serie di patetici tentativi: quelli dello Zar Nicola II di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dalla situazione interna, cioè dai nascenti moti rivoluzionari. La battaglia di Tsushima non ebbe praticamente storia: le navi russe erano piccole, male armate e mal ridotte. Gli equipaggi erano impreparati, demotivati e minati dal lunghissimo viaggio attraverso tre oceani.

Non lo sapremo mai con certezza, ma è probabile che le cose si siano svolte nel caos tragicomico dipinto da Bonvi. Un caos frutto non solo della effettiva debolezza della flotta russa, ma di una mentalità distorta, dell'obbedienza cieca agli ordine superiori o a un assurdo codice comportamentale. Se lo Zar non fosse stato così ottusamente testardo nel difendere l'indifendibile, se gli ufficiali russi si fossero arresi subito ai giapponesi, forse la battaglia di Tsushima non si sarebbe risolta in un macabro tiro al bersaglio.

Ma lo Zar doveva distogliere l'attenzione dai moti rivoluzionari, convinto che una guerra d'espansione sarebbe bastata allo scopo. Gli ufficiali dovevano obbedire, naturalmente. E i marinai dovevano eseguire gli ordini e andare incontro alla morte.


Ciò che Bonvi racconta, quindi, in realtà non è nè "un uomo" nè "un'avventura": è il tema di fondo delle sue amate Sturmtruppen: la tragedia dell'annullamento dell'individuo ad opera del militarismo. Una tragedia dove la stupidità umana è talmente immane che non resta che cercare di riderne, o perlomeno di sogghignare.

Formidabili e spiazzanti, come le cose migliori dell'autore emiliano, sono le prime pagine dei giornali dell'epoca: reinterpretate in stile bonviano, le copertine della Domenica del Corriere, Le Journal pour Tous e altre fanno da cesura, con una felice intuizione narrativa, tra prima e seconda parte della storia.

Dal punto di vista del disegno, oltre ai consueti retini (che caratterizzarono costantemente il lavoro di Bonvi), è da rimarcare anche un astutissimo uso di montaggi con fotocopie nelle tavole della festa di fine anno (pag. 34 e pag. 35). Il computer non esisteva ancora, e Bonvi, tutt'altro che abituato a disegnare scene di massa, ammise di avere sofferto non poco la lunghezza delle 48 pagine. Terminato il lavoro, disse: "Non farò mai più storie così lunghe." E, purtroppo per noi, mantenne la parola.