venerdì 7 giugno 2024

LA SIGNORA DEL WEST


Non ci fu niente di propriamente avventuroso nella vita di Dorothy Marjorie Johnson. Nacque nell’Iowa nel 1905, e quando era bambina la sua famiglia si trasferì a Whitefish, Montana. La morte di mister Johnson lasciò in difficoltà moglie e figlia – il Montana del primo Novecento non era certo un posto propizio per l’emancipazione femminile - ma la madre di Dorothy non si perse d’animo. Collezionò diversi lavori: giornalista, assistente del direttore dell’Ufficio Acquedotto di Whitefish, tesoriere comunale, e perfino allevatrice di polli. La giovanissima Dorothy aiutava sua madre e metteva da parte i soldi per il college, lavorando anche come centralinista part-time. Riuscì quindi a studiare e laurearsi in Letteratura Inglese alla Montana State University di Missoula. Lasciato il Montana per New York, lavorò nella Grande Mela come editor per molti anni, e quindi fece ritorno nella città dov’era cresciuta. Anche là lavorò come editor, per poi trasferirsi a Missoula. Qui si sposò, ma il matrimonio durò poco: lui era un giocatore d’azzardo, e per qualche tempo gran parte dei guadagni di Dorothy andò a coprire i debiti del marito. Dopo la separazione, Dorothy giurò di non sposarsi mai più. Ma non rimase al verde: fin da dopo la laurea aveva cominciato a scrivere, e da allora non si era più fermata. Alla sua morte, nel 1983, aveva firmato diciassette romanzi, una quantità imprecisata di articoli e una cinquantina di racconti western, di cui tre erano diventati celeberrimi film: L’albero degli impiccati (1959), diretto da Delmer Daves, L’uomo che uccise Liberty Valance (1961), diretto da John Ford, e Un uomo chiamato cavallo (1970), diretto da Elliott Silverstein. 

 

Dorothy M. Johnson fu una delle poche donne a scrivere western, e senza dubbio fu quella che diede al genere il contributo più importante. Scelse di mettere in scena la vulnerabilità dei personaggi virili con cui tradizionalmente identifichiamo il western, e quella scelta la spiegò così: “Io credo che le persone che popolarono l’Ovest fossero molto diverse fra di loro. Qualcuno scrisse in una poesia che i codardi non cominciarono nemmeno il cammino, e i deboli caddero lungo la strada. Significa che non tutti coloro che scelsero l’Ovest erano nobili d’animo, audaci e coraggiosi. Alcuni di loro erano canaglie fatte e finite. Ma erano gente tosta, e a me piace la gente tosta.”

Quella “gente tosta” è raccontata dalla Johnson nelle più intime sfumature, descritte con una prosa raffinata, assai diversa da quella cruda ed essenziale dei pulp-magazine. Il successo non era scontato, ma arrivò. Era scontato, invece, che le storie fossero rielaborate secondo i canoni hollywoodiani nel passaggio dalla pagina scritta al film. Nulla doveva intaccare il carisma dei famosissimi interpreti. Ma questo non impedì che gli adattamenti cinematografici facessero onore alle opere della scrittrice.

Per quanto affrontasse il genere “virile” per eccellenza, la Johnson non si dimenticò delle donne, spesso al centro della scena alla pari degli uomini. La protagonista del romanzo Buffalo Woman è Whirlwind (Mulinello), una donna Sioux Oglala che affronta il difficile periodo successivo alla battaglia del Little Bighorn. La National Cowboy Hall of Fame aggiudicò all’opera il prestigioso premio Western Heritage.

 

La stessa autrice, d’altronde, vedeva sé stessa come una tipica donna dell’Ovest. E, riguardo allo scrivere storie western, disse più o meno così: “Nemmeno gli uomini che scrivono storie sulla Frontiera l’hanno vissuta in prima persona. Ci documentiamo sulla carta stampata, e quella è la stessa per tutti, non è esclusiva di chi ha il petto villoso.”

In ogni modo, la Johnson non scrisse solo narrativa basata su cavalli e pistole. Per The Magazine of Western History scrisse anche articoli di costume, ricchi di ironia e basati su esperienze personali, comprese quelle vissute come centralinista, appena quattordicenne. (Number, Please! - Confessions of a Teen Aged “Central”).

In ogni caso, fu la sua specializzazione nel western a darle gratificazioni, e non solo economiche: oltre al citato Western Heritage Award ebbe diversi riconoscimenti, compreso il premio Spur (Sperone) per gli scrittori di western, e già nel 1959, consacrata local hero di Whitefish, ricevette le chiavi della città. Vent’anni dopo arrivò un altro premio, il Levi Strauss Golden Saddleman Award, e la scrittrice fu adottata dalla tribù dei Piedi Neri col curioso nome di Uccide Entrambi i Posti (Kills Both Places).

 

Con Un uomo chiamato cavallo terminò il rapporto diretto di Dorothy Johnson con il cinema (il film ebbe ben due seguiti, ma non tratti da opere della scrittrice). Era il 1970, e proprio in quell’anno Hollywood cominciava una rilettura critica – spesso spietata - del mito della Frontiera, con pellicole come Piccolo grande uomo, Soldato blu, La ballata di Cable Hogue, Uomini e cobra, La spina dorsale del diavolo. Nei decenni a venire, nessuno avrebbe più esplorato sugli schermi il lato vulnerabile dei protagonisti del West, ma soltanto la loro brutalità.

I tre racconti di Dorothy M. Johnson che hanno ispirato i film omonimi, con l'aggiunta del racconto La sorella scomparsa, sono riuniti nel libro L'uomo che uccise Liberty Valance, edito da Mattioli 1885.


 

 

 

sabato 25 maggio 2024

CINQUE COSE CHE NON SAPEVI SUL "NOSTRO" DESERTO DEI TARTARI

1) La prima versione della sceneggiatura è stata consegnata nel mese di luglio 2019, ed era di 153 pagine, dieci in meno della versione definitiva. Le pagine inserite in seguito sono quasi tutte quelle interamente mute, dietro suggerimento di Pasquale Frisenda. Una sequenza muta, invece, era dialogata nella versione del 2019, ed era l’attacco della scena tra Drogo e Maria, a pagina 19. Ma i volti dei personaggi risultavano così efficaci nell’esprimere un silenzioso imbarazzo, che eliminai radicalmente il dialogo e lo feci cominciare solo nella penultima vignetta. 


2) La frase di Drogo “Obbedisco, signor capitano, ma protesto”, rivolta al suo superiore Mentana, è una citazione da una storia di Hugo Pratt: L’uomo del Sertão, pubblicata come volume 14 della collana Un uomo un’avventura, edita dalla Cepim di Sergio Bonelli. Quelle parole mi sono sembrate perfette per rappresentare l’atteggiamento di Drogo, ma in realtà la battuta ha un’origine curiosa. Sergio Bonelli non gradì le scene erotiche della storia in una collana indirizzata a un pubblico (allora) di giovanissimi, e si impuntò in particolare su una vignetta che trovava di cattivo gusto. Alla fine Pratt la eliminò... ma si tolse lo sfizio di mettere in bocca al protagonista Gringo il suo disappunto, nel dialogo conclusivo della storia. 


 

3) Un’altra citazione fumettistica riguarda il capitano Fillmore, “l’inglese”, come lo chiamano alla Bastiani. Nel romanzo di Buzzati il personaggio non è inglese, il cognome è Filimore. Ma a me è sempre sembrato ricalcato dall’inglese (c’è anche una storia di Alack Sinner dal titolo Il caso Fillmore), così ho affibbiato al colonnello un’origine britannica e gli ho dato un assistente indiano con barba e turbante. Il nome di quest’ultimo, Taj, è quello dell’assistente indiano di Quincy Harker nel bellissimo Dracula della Marvel, scritto da Marv Wolfman e disegnato da Gene Colan.


 

4) Per festeggiare il suo trasferimento, il tenente Lagorio offre ai colleghi lo champagne rubato al colonnello. Durante una riunione in redazione qualcuno, vedendo i disegni, chiese: “Bevono champagne? Ma sarà caldo... Non avevano mica i frigoriferi!”. I frigoriferi non c’erano nemmeno nel 1735, quando lo champagne (che ha origini antichissime) cominciò a essere prodotto col metodo champenoise (quindi diventò effervescente) e a essere imbottigliato in bottiglie con tappi di sughero. Considerato che la temperatura considerata ottimale è tra gli 8 e i 10 gradi, è facile immaginare che per degustarlo come si deve fosse sufficiente tenere la bottiglia al fresco in cantina. Perciò aggiunsi una battuta a Lagorio, facendogli specificare che il colonnello conservava la bottiglia nell’acqua del pozzo.

5) Quando Drogo lascia la fortezza, la sua meta – che non raggiungerà – è l’ospedale di San Celso. Dovendo dare un nome all’ospedale, mi serviva restare in un contesto geografico di fantasia. Perciò scelsi il nome di un santo inesistente, ricordandomi il personaggio di un film a cui avevo collaborato. O almeno, ero convinto di avere trovato il nome in questo modo. Solo a storia finita, rileggendo Le Storie Dipinte di Buzzati, mi sono accorto che “San Celso” era un’invenzione dello scrittore, e io l’avevo memorizzata inconsciamente. È di mia invenzione, invece, il nome del sergente che accompagna Drogo, il sergente Caronti. Un riferimento trasparente a Caronte, il traghettatore delle anime nell’aldilà secondo la mitologia greca e romana.


 

domenica 28 gennaio 2024

IL CACCIATORE, 46 ANNI DOPO

La prima volta che vidi Il Cacciatore fu alla sua uscita nelle sale, nel 1979 (il film era uscito negli USA nel 1978). Avevo sedici anni, e fu un’esperienza travolgente. Per questo ero molto curioso di rivedere il film sul grande schermo, anche se tra molteplici visioni in VHS e in DVD nell’arco di quarant’anni lo conosco praticamente a memoria.

Che impressione mi ha fatto, dopo decenni? Quasi la stessa. È sempre un filmone. E, da spettatore più navigato del sedicenne di allora, ho potuto apprezzare meglio la straordinaria abilità di Cimino sia nel girare scene di massa – il matrimonio, ma anche l’assalto all’ambasciata a Saigon – che nel dirigere un cast strepitoso e tirare fuori il meglio non solo da attori all’epoca già affermati (De Niro e Cazale), ma anche da sconosciuti: Meryl Streep era solo al secondo film per il grande schermo. Savage aveva alle spalle una manciata di B-movies e un po’ di tv, così come Dzundza, e l’unica perla nel curriculum di Walken era un piccolo ruolo in Io e Annie. Chuck Aspegren, poi, non era nemmeno un attore, ma un operaio siderurgico prima reclutato come consulente e poi arruolato nel cast; nel quale peraltro non sfigura affatto, col suo tormentone “D’accordissimo!” (Fuckin’A! in originale). 

Per quanto nel 1979 fossi solo un adolescente, ricordo bene l’ondata di polemiche feroci che accompagnò il film, e soprattutto la sua premiazione agli Oscar: il film vinse ben cinque statuette, tra cui quelle per miglior film, miglior regia, migliore attore non protagonista (Walken). Cimino fu accusato di avere rappresentato i vietcong con stereotipi razzisti, e soprattutto di essere colpevole del reato di falso storico: non esistono testimonianze di prigionieri americani torturati dai vietcong con la roulette russa. Ciò che sfuggiva agli indignati di allora, ovviamente, era qualcosa evidente oggi più di ieri. Il cacciatore non è un film razzista. E non è nemmeno un film “politico”, non è – o è solo in piccola parte - uno statement polemico su una guerra “sbagliata”, a differenza di altri “vietnamovies” come Tornando a casa, che lo precedette di poco, e dei film che lo seguirono: Apocalypse Now (1979), Platoon (1986), Full Metal Jacket (1987), Vittime di guerra (1989), Nato il 4 luglio (1989).

Il cacciatore porta la tragedia della guerra a un livello universale, quasi metafisico. Non racconta “la guerra del Vietnam”, racconta la guerra: una catastrofe che travolge persone qualsiasi, né meglio né peggio di altre, i giusti e gli ingiusti. Affrontare una guerra non è poi tanto diverso, alla fine, dall’essere colpiti da un terremoto, dall’eruzione di un vulcano, da una tsunami. Dunque, il film di Cimino racconta la precarietà delle nostre esistenze, in balia di eventi che non possiamo controllare. E racconta della reazione di ognuno alla tragedia: c'è chi la scansa (Stan), chi soccombe per fatalità (Steve) o per scelta (Nick), e infine chi fa appello a tutte le proprie forze (Mike), reagisce e cerca di rimettere insieme i cocci.

Occorre “un colpo solo” per abbattere il cervo. Mike se ne fa un punto d’onore e lo ricorda agli amici, come se la morte dell’animale fosse in questo mod oemendata, resa corretta; fingendo di ignorare che il cervo, a differenza dell’uomo, non è armato di fucile, e la lotta è impari. Poi sarà la guerra a insegnare a Mike che non esiste un modo “corretto” di sopprimere un altro essere vivente. Né per chi combatte (o crede di combattere) una guerra “giusta”, né per chi uccide un animale. Dal punto di vista di chi è strappato alla vita, uomo o animale che sia, il “come” non fa differenza. Mike lo capisce, e non riuscirà più a sparare, nemmeno a un cervo, nemmeno con l’alibi di “un colpo solo”.

All’epoca, Cimino fu accusato di patriottismo reazionario per avere indicato una possibile via d’uscita dal labirinto di una sofferenza devastante. Perché, in effetti, la sua non è la contemplazione dell’apocalisse coppoliana, in bilico tra orrore e fascinazione. Non è la visione sardonica e quasi compiaciuta di Kubrick. Non contiene l’esortazione naive alla bontà che chiude il film di Oliver Stone, né la denuncia dei carnefici da parte di De Palma. La via d’uscita di Cimino in realtà consiste nel rientro: quello dei sopravvissuti a Clairton, Pennsylvania, per riannodare i fili delle rispettive esistenze dentro la comunità da cui provengono. God Bless America, cantano Mike e gli altri. Ma non perché Clairton sia l’America dell’American Dream (anzi: i protagonisti sono di origini russe), ma perché è ancora casa. È ancora home, my sweet home, l’unico possibile rifugio dagli orrori del mondo. È una risposta a una duplice perdita, quella degli affetti e quella dell'innocenza, che possiamo anche non condividere. Ma non possiamo ignorare che ognuno di noi è chiamato a trovare la propria.

"A Nick!"