giovedì 18 febbraio 2021

UN WESTERN PER GLI ANNI DUEMILA

 

 

Ogni volta che un film western mi delude (quindi due o tre volte all’anno da almeno quindici anni) devo rimediare con un bel western. Che può essere un classico o no. Se non è un classico, è Broken Trail – Un viaggio pericoloso (2006), film televisivo di Walter Hill, finora superato nella mia personale top ten solo da Terra di confine (Open Range) di Kevin Costner, di cui Robert Duvall riprende lo stesso personaggio (pur con altro nome): il vecchio cowboy che ha passato una vita in sella. E che ora percorre l’ultima, insidiosa pista per raggranellare quanto basta ad assicurarsi una vecchiaia serena.

In Broken Trail l'anziano cowboy si chiama Print Ritter. La sorella di Print, in rotta col figlio, è morta e ha lasciato al solo Print casa e terreni. Ma Print non vuole sottrarre l’eredità al nipote Tom (Thomas Haden Church), e gli propone un patto: vendiamo tutto, compriamo cinquecento cavalli e andiamo a venderli nel Wyoming. Col ricavato ci sistemeremo a vita. Tom accetta, e i due cominciano il viaggio dall’Oregon al Wyoming. Ma sono costretti a rivedere i loro piani quando incontrano un ruffiano (James Russo) che sta scortando un altro tipo di mercanzia: cinque ragazze cinesi, destinate a un bordello di minatori, che non parlano una parola di inglese... 

 

Su un canovaccio lineare, Hill e lo sceneggiatore Alan Geoffrion costruiscono un western che svolge temi classici dentro un impianto realistico, passando con naturalezza da un registro all’altro. C’è la stessa sobrietà nella rappresentazione di una violenza “necessaria”, mai esibita volgarmente, che nella rappresentazione dei sentimenti, distillata con un leggero tocco di umorismo.

Broken Trail ha tutto ciò che ci si può aspettare da un western. C'è l’amicizia virile, il coraggio e l’onore, e un tema di base caro a Clint Eastwood: quello della “famiglia allargata” che si costituisce lungo la strada. Lo sfondo storico è quello della frontiera, una frontiera che alla fine dell’Ottocento è ormai quasi raggiunta: ma ancora ci sono città senza legge dove i conti si regolano con la pistola, popolate da avventurieri in cerca di fortuna, e da immigrati che vi trovano la morte dei loro sogni. Tutto ciò mentre procede inesorabile la graduale cancellazione dei nativi americani, perpetrata non solo con le armi, ma con le malattie. 

 


Walter Hill ha sempre fatto western, anche quando girava thriller urbani (qualcuno ricorda che l’autista di Driver non ha un nome, ed è chiamato semplicemente “cow-boy”?). Ma Broken Trail è il suo primo lavoro in cui il paesaggio non è il Territorio ostile à la Robert Ardrey attraversato dai Guerrieri della palude silenziosa, né lo scenario impassibile che protegge la fuga degli Apache di Geronimo o dei Long Riders della banda James. È un luogo di suggestiva bellezza dove è possibile fermarsi a contemplare il cielo notturno acceso di stelle, dove apprezzare una piccola gioia come immergere i piedi stanchi nell’acqua fresca, dove sognare la libertà e un futuro migliore.

Nella filmografia western degli anni duemila Broken Trail fa storia a sé. Senza negare l’iconografia tradizionale e i luoghi comuni del genere, ma anche senza ignorarne le rivisitazioni realistiche postsessantottine, Hill e lo sceneggiatore Geoffrion si tengono alla larga dalla decadenza tombale del western contemporaneo. E anzi, riaffermano testardamente il valore etico del genere, nell’affermazione di un sentimento di solidarietà umana al di sopra di ogni differenza etnica e linguistica: l’unica risorsa possibile davanti a sfide che mettono in palio il nostro destino. 

 

Doveroso spendere qualche parola per cast e crew, e cominciamo col dire che il film ha una confezione di lusso. Direttore della fotografia (Lloyd Ahern) e montatori (Freeman Davies e Phil Norden) sono collaboratori di Hill da anni. Alla colonna sonora non c’è il fido Ry Cooder, ma altri due big: Van Dyke Parks (collaboratore, tra gli altri, dello stesso Cooder) e David Mansfield (basta un titolo: I cancelli del cielo).

 

Infine, gli attori. Se può apparire superfluo sottolineare l’ennesima grande prova di Duvall, il resto del cast non gli è da meno. Bravo e convincente il co-protagonista Thomas Haden Church, se la cavano bene anche le giovani interpreti “cinesi” (in realtà canadesi; la sola Gwendolyn Yeo è nata in Asia), e in ruolo un po’ defilato – il cow-boy violinista che affianca i due protagonisti - c’è il giovane Scott Cooper, altro nome familiare per il western: è il regista di Hostiles. Efficacissimi anche i cattivi, ma più dei laidi personaggi di Chris Mulkey e James Russo resta impressa la corpulenta quanto spietata ruffiana Big Rump Kate, interpretata da Rusty Schwimmer. Ma è Greta Scacchi il cuore del film. Il suo personaggio è quello di Nola, prostituta picchiata e sfregiata dal suo ex amante, che si aggrega ai nostri per sfuggire alla vendetta di lui. In un finale struggente davvero insolito per un film western, sarà lei a ricordare a Print – e a noi spettatori – che, anche se si raggiunge indenni la meta, si rimpiangerà sempre qualcosa che è andato perduto lungo la strada. 

Clicca qui per il trailer originale.

giovedì 4 febbraio 2021

I SUPEREROI NON MUOIONO, PASSANO NEL MONDO DELLA REALTA'

Nel 1998 sono alla Comic Convention di San Diego insieme a Stefano Casini e a un gruppo di professionisti italiani. Mentre giriamo per la mostra ci ferma un tizio sulla cinquantina, con una cartella sottobraccio. Ha la barba non rasata e un aspetto sciatto. Dice di essere un disegnatore, vorrebbe sapere come proporsi in Italia, e ha con sé dei disegni. Stefano e io ci guardiamo perplessi. Il tipo è un po’ troppo maturo per essere il classico appassionato che da grande vuole fare il disegnatore. Gli spieghiamo che non siamo editori, però non c’è problema, diamo volentieri un’occhiata ai disegni.

Sono supereroi, ovviamente. Ci rendiamo conto subito che quest’uomo è un professionista. E poi leggo il suo nome. E faccio due più due. Da ragazzino ho letto non so quanti albi dei Fantastici Quattro disegnati da lui, e ho visto la sua firma anche su Capitan America, I Vendicatori e chissà cos’altro.

Adesso gira per una fiera come un ragazzotto ventenne, ma non lo è più, un ragazzotto. È un cinquantenne ormai fuori dal giro, che chiede lavoro a due italiani sconosciuti. Ma glielo leggi negli occhi: non è un collega che si sta informando da colleghi su un’eventualità di lavoro. È uno che sta affogando e chiede al primo che passa di lanciargli un salvagente.

Gli ripetiamo che, non essendo editori, non possiamo fare materialmente niente per lui, e che purtroppo il suo materiale non rientra negli standard dell’editore per cui lavoriamo. Però può comunque rivolgersi allo stand del gruppo italiano, magari qualcuno può indirizzarlo da un editore. Lui richiude la cartella, ci ringrazia sforzandosi di sorridere, e si dirige allo stand. Dove, lo sappiamo già, non c’è nessuno in grado di lanciargli un salvagente. E nessun altro lo farà. Negli anni 2000 questo disegnatore firmerà una sola storia, breve e per una piccola etichetta, e un manuale di tecnica del disegno.

Per Herb Trimpe, più o meno negli stessi anni, l’esperienza è simile, ma avrà uno sbocco diverso. Trimpe negli anni Novanta si divide tra Hulk e I Fantastici Quattro, quando la Marvel entra in crisi. Nel 1995 I Fantastici Quattro chiude, e Trimpe si ritrova col lavoro dimezzato. La sua soglia minima per campare è di sedici pagine al mese, e ora non ci arriva più. Sta per compiere cinquantasei anni e ha due figli al college. Non perde tempo, e lo stesso giorno del suo compleanno manda una richiesta per fare un corso di formazione al New York's Empire State College. Gliela accettano tre mesi dopo.

In novembre, anche Fantastic Four Unlimited chiude. Trimpe, senza lavoro, va a parlare all’ufficio personale della Marvel, e l’imbarazzatissima responsabile gli dice di andare in pensione. Trimpe rifiuta: ha famiglia, e deve lavorare. Dice: “Io non mi punto la pistola alla testa. Piuttosto, sparatemi voi”. Cerca di ragionare, insulta, arriva a implorare (“I've tried reason, outrage, guilt trips and begging”). Niente. Dopo un mese, è chiaro che dalla “casa delle idee” non arriverà altro lavoro. Nel mese di gennaio 1996 la Marvel licenzia una ventina di persone, e tra queste c’è anche l’editor di Trimpe.

A casa, Trimpe comincia a lavorare a una propria comic strip, ma con poca convinzione.

Intanto è cominciato il corso al NY Empire State College. È lungo, difficile e soprattutto costoso. Qualche lavoro arriva comunque. Ma il 3 febbraio Trimpe annota nel suo diario: “Sento che mi sto trasformando in qualcun altro”. Pochi giorni dopo, un attacco di panico lo sveglia nel cuore della notte.

Nel mese di maggio la Marvel lo licenzia definitivamente, con una lettera lunga decine di pagine. È il “termination agreement”. Trimpe annota diligentemente nel suo diario che gli tocca “firmare dei moduli in cui mi impegno a non parlare della Marvel, non rivelare identità segrete di supereroi, non parlare male di Stan Lee, non piantare grane”. Se non firma quell’accordo non avrà la liquidazione. Firma, e continua a proporsi ad altre case editrici. Inutilmente.

Nel mese di giugno la strip che stava realizzando da solo ha collezionato il quarto rifiuto, e Trimpe si mette in coda all’ufficio di collocamento. Scrive sul diario: “Il pensiero di fare dei colloqui di lavoro mi deprime. Ma il pensiero di non tornare a lavorare mi deprime anche di più”.

Nessun lavoro all’orizzonte, ma Trimpe continua il corso all’Empire State, e contemporaneamente impara a usare Quark Express, Photoshop e Adobe Illustrator. Ma ancora niente sul fronte del lavoro. Scrive: “Razionalmente, posso accettare di non portare il mio contributo alla famiglia, ma psicologicamente è un’altra faccenda. Questa cosa mi divora dentro”.

Un anno dopo prende il suo bravo diploma all’Empire State College. Ora può insegnare. Ci vorranno ancora dei mesi, ma nel gennaio 1999 Trimpe è docente alla Truman Moon School di Middletown, e si divide tra una scuola elementare e un college. Ha 59 anni. Fa cinque ore di lezione al giorno. Sono mesi faticosi, ma gratificanti. Non è un posto fisso, però.

A fine anno scolastico Trimpe è di nuovo disoccupato. Dopo un’estate di colloqui a vuoto, trova una cattedra in una scuola pubblica, a Eldred. Deve fare ogni giorno più di un’ora di macchina per arrivarci, ma non è il caso di fare gli schizzinosi. Il problema sono i ragazzi. Definirli “vivaci” un eufemismo, e Trimpe passa da momento di euforia a veri e propri attacchi di ansia.

Ma il primo dicembre la tempesta è alle spalle: “Mi sento molto positivo in queste ultime settimane. L’amministrazione e lo staff mi aiutano molto. E oggi ho avuto la mia Varsity Jacket (il giaccone con lo stemma e i colori della scuola, ndt). Il cerchio si è chiuso”.

Nel 2000 Trimpe racconta la sua odissea in un lungo articolo per il New York Times. Wikipedia ci dice che ha insegnato nella scuola di Eldred per due anni. Non si sa che cosa abbia fatto dopo. È morto nel 2015, lo stesso anno che vide la sua ultima apparizione pubblica, alla East Coast Comicon, nel New Jersey.

Nel mese di giugno del 1996 aveva scritto: “Mi rendo conto che oggi è il mio primo giorno senza alcun lavoro, da quando ho lasciato l’Aeronautica, 34 anni fa. Sensazione interessante. È come essere in bilico sull’orlo di una scogliera. Ma forse riuscirò a volare.” 

Herb Trimpe nel 2015, all'East Coast Comicon

    Foto ©Luigi Novi/Wikipedia Commons