Articolo pubblicato il 30 settembre 2008, in occasione della visita di Rutger Hauer a Milano per la rassegna di cortometraggi "I've seen films".
Quando l’attore si trovò di fronte quella pagina di dialogo, anzi, di monologo, disse al regista che gli sembrava troppo lungo, e che voleva sfoltirlo.” Fai pure”, disse il regista tagliando corto. Era già in ritardo sulla lavorazione, i costi del film erano saliti ben oltre il budget. Qualsiasi soluzione che accorciasse i tempi era ben accetta.
Al ciak l’attore sintetizzò il monologo in cinque righe, che cominciavano così: – Io ne ho viste, cose che voi umani non potreste immaginarvi... (in originale: I've seen things you people wouldn't believe...)
Quando il regista diede lo stop, né lui né l’attore sapevano di avere girato quello che sarebbe stato il monologo cinematografico più amato, citato, parodiato nell’ultimo scorcio del ventesimo secolo.
Al momento di interpretare la parte del replicante Roy in Blade Runner, l’attore olandese Rutger Hauer ha già quarantadue anni, ma è solo al suo secondo film in lingua inglese.
La carriera di Hauer comincia alla tv olandese nel 1969, quando il regista Paul Verhoeven lo sceglie come protagonista della serie Floris, imperniata sulle avventure di un cavaliere medievale.
Al ciak l’attore sintetizzò il monologo in cinque righe, che cominciavano così: – Io ne ho viste, cose che voi umani non potreste immaginarvi... (in originale: I've seen things you people wouldn't believe...)
Quando il regista diede lo stop, né lui né l’attore sapevano di avere girato quello che sarebbe stato il monologo cinematografico più amato, citato, parodiato nell’ultimo scorcio del ventesimo secolo.
Al momento di interpretare la parte del replicante Roy in Blade Runner, l’attore olandese Rutger Hauer ha già quarantadue anni, ma è solo al suo secondo film in lingua inglese.
La carriera di Hauer comincia alla tv olandese nel 1969, quando il regista Paul Verhoeven lo sceglie come protagonista della serie Floris, imperniata sulle avventure di un cavaliere medievale.
Il successo della serie è tale che il sodalizio tra regista e attore continua al cinema, con ben quattro film nell’arco di sette anni, dal 1973 al 1980: Fiore di carne, Kitty Tippel, Soldato d’Orange e Spetters.
Durante questo periodo Hauer gira anche qualche film in Germania, tra cui il drammatico (in vari sensi della parola) Pusteblume, uscito anche in Italia con l’agghiacciante titolo La donna che violentò se stessa. Ma non smette mai di lavorare nel teatro, che considera il suo “vero” lavoro. In quel periodo vive con la moglie in una casa in campagna, in una zona così isolata da non avere nemmeno la linea telefonica.
Uscito dalla compagnia teatrale dopo uno screzio col direttore artistico, decide di compiere quello che per lui è un salto nel buio: lasciare il “sicuro” lavoro teatrale per tentare l’incerta carriera cinematografica.
Riesce così a lavorare in due grosse produzioni internazionali, Il seme dell’odio e Max Havelaar. Ma sarà Soldato d’Orange (1979), che racconta la resistenza olandese durante la seconda guerra mondiale, ad attirare l’attenzione di Hollywood, ricevendo anche dei premi.
Durante un viaggio a New York per promuovere il film qualcuno suggerisce ad Hauer – che parla discretamente l’inglese – di trovarsi un agente americano. L’attore accetta il consiglio, e poco tempo dopo ottiene la parte del terrorista Wulfgar nel thriller metropolitano I falchi della notte, facendo da antagonista a Sylvester Stallone. L’anno seguente è chiamato a interpretare Roy Batty in Dangerous Days (titolo di lavorazione di Blade Runner). E il resto, come si dice, è Storia.
Blade Runner ha rischiato di far diventare Hauer una star, procurandogli in seguito molte parti da protagonista (soprattutto nel ruolo del cattivo) per tutto il decennio degli anni ottanta. Hauer è stato un autostoppista assassino (in The Hitcher, forse il suo ruolo migliore dopo il film di Scott), e due volte cavaliere medievale: una come eroe positivo (in Ladyhawke) e una come spietato mercenario (L’amore e il sangue, di nuovo per la regia di Paul Verhoeven). È stato anche un barbone in cerca di redenzione (La leggenda del santo bevitore), giornalista coinvolto in un intrigo spionistico (Osterman Weekend), ma soprattutto è stato killer o giustiziere in una pletora di thriller a cavallo tra gli anni ottanta e gli anni novanta. Dalla fine degli anni ottanta, infatti, Hauer sembra accettare i copioni a occhi chiusi: Furia cieca, Wanted – Vivo o morto, Le mani della notte, Detective Stone sono tutti film che scivolano via senza lasciare tracce nella memoria. Il periodo successivo lo vede più sul piccolo che sul grande schermo, fino al ritorno all’attenzione del grande pubblico nel 2005 in un ruolo piccolo ma carismatico: quello del malvagio cardinale Roark in Sin City.
Durante questo periodo Hauer gira anche qualche film in Germania, tra cui il drammatico (in vari sensi della parola) Pusteblume, uscito anche in Italia con l’agghiacciante titolo La donna che violentò se stessa. Ma non smette mai di lavorare nel teatro, che considera il suo “vero” lavoro. In quel periodo vive con la moglie in una casa in campagna, in una zona così isolata da non avere nemmeno la linea telefonica.
Uscito dalla compagnia teatrale dopo uno screzio col direttore artistico, decide di compiere quello che per lui è un salto nel buio: lasciare il “sicuro” lavoro teatrale per tentare l’incerta carriera cinematografica.
Riesce così a lavorare in due grosse produzioni internazionali, Il seme dell’odio e Max Havelaar. Ma sarà Soldato d’Orange (1979), che racconta la resistenza olandese durante la seconda guerra mondiale, ad attirare l’attenzione di Hollywood, ricevendo anche dei premi.
Durante un viaggio a New York per promuovere il film qualcuno suggerisce ad Hauer – che parla discretamente l’inglese – di trovarsi un agente americano. L’attore accetta il consiglio, e poco tempo dopo ottiene la parte del terrorista Wulfgar nel thriller metropolitano I falchi della notte, facendo da antagonista a Sylvester Stallone. L’anno seguente è chiamato a interpretare Roy Batty in Dangerous Days (titolo di lavorazione di Blade Runner). E il resto, come si dice, è Storia.
Blade Runner ha rischiato di far diventare Hauer una star, procurandogli in seguito molte parti da protagonista (soprattutto nel ruolo del cattivo) per tutto il decennio degli anni ottanta. Hauer è stato un autostoppista assassino (in The Hitcher, forse il suo ruolo migliore dopo il film di Scott), e due volte cavaliere medievale: una come eroe positivo (in Ladyhawke) e una come spietato mercenario (L’amore e il sangue, di nuovo per la regia di Paul Verhoeven). È stato anche un barbone in cerca di redenzione (La leggenda del santo bevitore), giornalista coinvolto in un intrigo spionistico (Osterman Weekend), ma soprattutto è stato killer o giustiziere in una pletora di thriller a cavallo tra gli anni ottanta e gli anni novanta. Dalla fine degli anni ottanta, infatti, Hauer sembra accettare i copioni a occhi chiusi: Furia cieca, Wanted – Vivo o morto, Le mani della notte, Detective Stone sono tutti film che scivolano via senza lasciare tracce nella memoria. Il periodo successivo lo vede più sul piccolo che sul grande schermo, fino al ritorno all’attenzione del grande pubblico nel 2005 in un ruolo piccolo ma carismatico: quello del malvagio cardinale Roark in Sin City.
Attore instancabile con più di cento film all’attivo, ma sempre lontano dal jet set e da Hollywood, Hauer non è mai stato un chiacchierone, e ha cominciato a raccontarsi solo di recente. L’anno scorso è uscita la sua autobiografia scritta con Patrick Quinlan (All those moments, “Tutti quei momenti”, ovvia citazione da Blade Runner).
All those moments riserva diverse sorprese. Innanzitutto non è una autocelebrazione che si preoccupa di esternare l’Hauer–pensiero sui massimi sistemi e sul Cinema con la C maiuscola, ma uno spaccato su quasi quarant’anni di carriera; una sorta di diario che, a parte l’ovvio risalto a Blade Runner, racconta di filmoni e di filmetti con identico, sereno distacco.
La seconda sorpresa di All those moments è il candore con cui Hauer racconta la sua storia d’amore con Ineke Ten Kate, la sua seconda moglie, incontrata nel 1968, sposata nel 1985 e tuttora al suo fianco.
La terza sorpresa è il vero motivo per cui questa autobiografia minimale è stata scritta. Tutti i proventi di All those moments, infatti, vanno all’associazione Starfish (stella marina, ndr), fondata dallo stesso Hauer per la lotta all’AIDS. Hauer racconta che l’idea dell’associazione nacque durante il soggiorno, per le riprese del film Jungle Juice, nell’arcipelago caribico di Turks e Caicos. Un posto paradisiaco, ma la cui popolazione era letteralmente falcidiata dall’AIDS.
A tutt’oggi, l’attività della Starfish occupa gran parte del tempo di Rutger Hauer, ed è inestricabilmente intrecciata con quella della Rutger Hauer Filmfactory, la scuola di cinema fondata da Hauer in Olanda.
Curiosamente, entrambe le attività vedono coinvolta l’Italia. Non solo perché la Starfish ha sede legale a Milano, ma anche perché proprio a Milano (o meglio, al multisala Skyline di Sesto San Giovanni) Hauer ha allestito la rassegna–concorso di corti I’ve seen films nello scorso settembre. E si è speso con prodigalità encomiabile, presentando ogni giornata di proiezioni.
A sessantasei anni (peraltro ben portati), Rutger Hauer non è diventato una star. “Una star è un prodotto – ha detto – e io sono un attore”. E in effetti, solo una star come Harrison Ford (di due anni più anziano di Hauer) può preoccuparsi di risultare ancora credibile in un ruolo d’azione. Hauer, non più preoccupato (se mai lo è stato) di mantenere lo status di star e icona virile, oggi si divide tra piccoli ruoli carismatici come quello in Sin City e il comprimariato di lusso in kolossal come Batman. E continua a non rifiutare interpretazioni prettamente “alimentari”.
Intervistato all’apice del suo successo negli anni ottanta, al giornalista che gli chiedeva cosa significava essere un vincente rispose: “Non credo che nella vita si arrivi a vincere veramente. Al massimo si arriva a capire qualcosa in più”.
All those moments riserva diverse sorprese. Innanzitutto non è una autocelebrazione che si preoccupa di esternare l’Hauer–pensiero sui massimi sistemi e sul Cinema con la C maiuscola, ma uno spaccato su quasi quarant’anni di carriera; una sorta di diario che, a parte l’ovvio risalto a Blade Runner, racconta di filmoni e di filmetti con identico, sereno distacco.
La seconda sorpresa di All those moments è il candore con cui Hauer racconta la sua storia d’amore con Ineke Ten Kate, la sua seconda moglie, incontrata nel 1968, sposata nel 1985 e tuttora al suo fianco.
La terza sorpresa è il vero motivo per cui questa autobiografia minimale è stata scritta. Tutti i proventi di All those moments, infatti, vanno all’associazione Starfish (stella marina, ndr), fondata dallo stesso Hauer per la lotta all’AIDS. Hauer racconta che l’idea dell’associazione nacque durante il soggiorno, per le riprese del film Jungle Juice, nell’arcipelago caribico di Turks e Caicos. Un posto paradisiaco, ma la cui popolazione era letteralmente falcidiata dall’AIDS.
A tutt’oggi, l’attività della Starfish occupa gran parte del tempo di Rutger Hauer, ed è inestricabilmente intrecciata con quella della Rutger Hauer Filmfactory, la scuola di cinema fondata da Hauer in Olanda.
Curiosamente, entrambe le attività vedono coinvolta l’Italia. Non solo perché la Starfish ha sede legale a Milano, ma anche perché proprio a Milano (o meglio, al multisala Skyline di Sesto San Giovanni) Hauer ha allestito la rassegna–concorso di corti I’ve seen films nello scorso settembre. E si è speso con prodigalità encomiabile, presentando ogni giornata di proiezioni.
A sessantasei anni (peraltro ben portati), Rutger Hauer non è diventato una star. “Una star è un prodotto – ha detto – e io sono un attore”. E in effetti, solo una star come Harrison Ford (di due anni più anziano di Hauer) può preoccuparsi di risultare ancora credibile in un ruolo d’azione. Hauer, non più preoccupato (se mai lo è stato) di mantenere lo status di star e icona virile, oggi si divide tra piccoli ruoli carismatici come quello in Sin City e il comprimariato di lusso in kolossal come Batman. E continua a non rifiutare interpretazioni prettamente “alimentari”.
Intervistato all’apice del suo successo negli anni ottanta, al giornalista che gli chiedeva cosa significava essere un vincente rispose: “Non credo che nella vita si arrivi a vincere veramente. Al massimo si arriva a capire qualcosa in più”.