venerdì 1 dicembre 2023

NAPOLEONE

No, il problema non è la mancanza della lezione di Storia. Anche se, affrontando un periodo storico non proprio remoto e ben documentato, qualche scrupolo di verosimiglianza e di contestualizzazione sarebbe meglio conservarlo. Comunque, potremmo anche dimenticarci che a Napoleone si deve il codice napoleonico (tuttora la base del diritto francese); che non bombardò le piramidi, ma fondò con un folto gruppo di accademici l’Institute d’Egypte; e che gli studi dell’Institute culminarono con la pubblicazione de La description de l’Egypte, all’epoca il testo più vasto mai pubblicato, opera ancora oggi fondamentale per l’egittologia. Potremmo anche dimenticarci che Napoleone era più giovane di Giuseppina; che non era il nanerottolo rappresentato nei libelli satirici, ma era alto un metro e sessantanove, perfettamente nella media dell’epoca. E che il Duca di Wellington – che non incontrò mai di persona – lo superava di soli cinque centimetri.

Insomma, potremmo dimenticarcele tutte, le falle storiche; potremmo, se non fossero colmate da Ridley Scott e dal suo sceneggiatore David Scarpa con materiale tutt’altro che avvincente. O, al limite, avvincente quanto poteva esserlo un libello satirico dell’epoca, realizzato al solo scopo di denigrare l’avversario. 

Perché il filmone di Scott in sostanza è questo: quasi tre ore di puro revanchismo made in UK, che riduce Napoleone a un omuncolo (fisicamente e metaforicamente), sbruffone, disempatico, narcolettico e imbranato con le donne, vincitore in battaglia non perché intelligente e competente, ma solo perché dotato del “fattore C”. Insomma, una figura simile al generale Custer imbecille e fanfarone rappresentato da Arthur Penn nel Piccolo Grande Uomo più che al condottiero che fece tremare i grandi imperi d’Europa.

Ma anche una lettura smitizzante, perfino dissacrante, risulterebbe efficace dentro una struttura narrativa compatta. Purtroppo non è questo il caso. Il film sembra non avere una visione narrativa d’insieme: il racconto procede in maniera ondivaga, per blocchi. A imponenti scene di massa – ancorché orchestrate in maniera iperrealistica e con indubbio gusto per l’affresco visivo – si alternano siparietti grotteschi, senza risparmiarci un Napoleone che si accoppia con Giuseppina come un coniglio, andando in meta dopo pochi secondi.  

Ma i problemi non consistono solo negli stridenti cambi di registro. Il primo problema è l’età di Joaquin Phoenix. Che, alla soglia dei cinquant’anni, rende perfettamente il declino dell’imperatore nella parte finale del film. Ma non può logicamente avere né il fisico né lo sprint del Napoleone ventiquattrenne che annientò gli inglesi nel porto di Tolone. Non è un handicap da poco, perché Napoleone si fece strada in pochi anni grazie al carisma della sua energia. E di questa non c’è traccia nella prima parte del film, in cui Phoenix deambula placido e sonnacchioso, tanto in battaglia quanto nelle stanze del potere.

Nessuna scena, poi, illustra il legame tra il generale e i suoi soldati. Tanto che alla fine, al momento del suo rientro in Francia dall’Elba, l’accoglienza entusiasta delle truppe risulta narrativamente incongrua. (E il paragone con Maximus che passa in rassegna la legione schierata nel Gladiatore è semplicemente impietoso).

La scelta drastica di Scott e Scarpa – amplificare all’estremo la solitudine di Napoleone, fare apparire il condottiero corso come un parvenu, un corpo estraneo all’apparato di potere francese – penalizza tutti i personaggi di contorno. A nessuno è concessa una battuta rivelatrice, uno spessore che vada al di là di una caratterizzazione “di servizio” semplicemente funzionale alla comprensione della trama. 

In pratica, è Vanessa Kirby nel ruolo di Giuseppina a reggere con Phoenix il peso del film. Una bella prova d’attrice, la sua, che riesce a dare consistenza a dialoghi che scivolano a tratti nel farsesco. Grazie, forse, anche una ritrovata voglia, da parte di Scott, di lavorare con le attrici dopo l’indimenticabile Thelma e Louise e il dimenticabile Soldato Jane. Ma per un film di questa portata è davvero poco da contrapporre alle lunghe scene di morte e distruzione. 

 

Non vorrei comunque dare l’impressione che Napoleone sia un film da liquidare con una scrollata di spalle. A ottantacinque anni suonati, Scott riesce a gestire set giganteschi con sicurezza e grande senso dello spettacolo. A tratti trova nel magma visivo qualche bella intuizione narrativa (Napoleone che fissa il volto della mummia è quasi un presagio sulla fine di ogni gloria terrena), e infine approda a un bell’epilogo coi tempi giusti, che ricorda la conclusione della saga del Padrino: l’unica occasione in cui, dopo due ore e quaranta, il regista regala allo spettatore un momento di empatia col condottiero francese.


 

lunedì 31 luglio 2023

L'OMBRA DELLA VENDETTA

Su Prime c’è un film piccolo piccolo (anche nella durata: 90 minuti scarsi), che non si è filato nessuno, e che merita una chance. Il titolo è L’ombra della vendetta (Five Minutes of Heaven, 2009). Si tratta di una produzione irlandese, probabilmente un ripiego per il regista tedesco Oliver Hirschbiegel (The Experiment, La caduta), dopo la travagliatissima produzione di Invasion, l’infelice remake de L’invasione degli ultracorpi.

La trama, ispirata a fatti realmente accaduti, è semplicissima: nel 1975, in una Belfast dilaniata dalla guerra civile, il protestante Alistair (Mark Ryder, I Borgia) uccide un ragazzo cattolico sotto gli occhi del fratellino Joe (il piccolo Kevin O’Neill, nel suo primo e finora unico ruolo cinematografico).

Trentatré anni dopo, nel 2008, un network televisivo offre ad Alistair (Liam Neeson) e a Joe (James Nesbitt) l’occasione di incontrarsi davanti alla telecamere: lo scopo è esortare un paese ancora diviso in due alla reciproca comprensione e al perdono. Alistair è ormai un uomo maturo, totalmente diverso dal fanatico che era. Scontata la sua pena in carcere, da anni gira il mondo per raccontare la sua esperienza e diffondere un messaggio di pace. Joe si è sposato, ha due bambine, ma l’omicidio del fratello ha segnato la sua infanzia, alienandogli l’amore della madre, che gli ha sempre rimproverato di non avere fatto niente per fermare l’assassino. Pur dopo tanto tempo, la ferita nell'anima di Joe brucia ancora.

 
 
I due uomini vengono accompagnati separatamente al castello dove il network sta allestendo il set per la trasmissione, e resteranno separati fino al momento di andare in onda. Si incontreranno soltanto davanti alle telecamere. Regista, assistenti, truccatrici si prodigano per mettere ciascuno dei due a loro agio. Alistair, abituato a parlare ai microfoni, tiene sotto controllo l’inevitabile disagio. Ma il problema è Joe: perché dentro di lui la tensione monta inesorabilmente, ora dopo ora, fino aa rivelare un’inquietudine che può portare a tutto fuorché a una riconciliazione...

L’ombra della vendetta è praticamente un film “da camera”, girato quasi completamente in interni. Una prova di notevole abilità registica da parte di Hirschbiegel e una prova d’attore per i due interpreti. Neeson è la star che conosciamo e si cala con ovvia naturalezza nei panni dell’assassino redento, ma qui è una sorpresa James Nesbitt. Già poliziotto infiltrato, maschera di ghiaccio e nervi d’acciaio nella serie Murphy’s Law, qui Nesbitt dà vita a un personaggio totalmente diverso: uno sfortunato psicolabile che ha atteso trent’anni per avere i suoi “cinque minuti di paradiso” (titolo originale del film). Ma che non saranno esattamente come se li aspettava. 

Per due terzi – quelli della preparazione all’incontro televisivo nel castello – il film è un gioiello di tensione sapientemente distillata, mentre nell’ultimo terzo lo scioglimento finale resta un po’ soffocato dalla sua stessa coerenza. In ogni caso, in mezzo a tante produzioni fatte con lo stampino, L’ombra della vendetta è una boccata d’ossigeno e merita un recupero. Last but not least: lo sceneggiatore è Guy Hibbert, che qualche anno dopo firmerà un altro interessante dramma claustrofobico, Il diritto di uccidere (2015) per la regia di Gavin Hood.

Qui trovate il trailer originale: https://www.youtube.com/watch?v=uZOE7HgvI3c

Qui un’intervista al regista Oliver Hirschbiegel: https://www.altfg.com/film/oliver-hirschbiegel-interview/


 

mercoledì 26 luglio 2023

BARBIE, ovvero LIFE IN PLASTIC IT'S FANTASTIC

Visto che al cinema ci sono un film di Greta Gerwig e uno di Christopher Nolan, viene da pensare che il film di Nolan sia Barbie. Perché lo sforzo (o meglio, lo sfarzo) produttivo è da kolossal, per la grandiosità della messa in scena e le invenzioni visive (e non tele-visive). Una dichiarazione di intenti è già nel prologo, ricalco fedele dello storico incipit di 2001: Odissea nello spazio: Barbie-monolito scende sulla Terra per aiutare il genere femminile a compiere il balzo evolutivo oltre il patriarcato. Il primo atto è già stupefacente di per sé, un’esplosione di musica e colori mozzafiato. Barbie – una Margot Robbie travolgente - vive felice nel suo mondo di plastica, finché è assalita all’improvviso da inspiegabili pensieri di morte. Un malessere interiore che prelude al tracollo fisico, preannunciato da un curioso fenomeno: i famosi piedini sagomati apposta per i tacchi alti, e quindi sempre in equilibrio sulle punte, tornano orizzontali: i talloni ora toccano il terreno. Una efficace trovata che funziona su due livelli, quello visivo e quello metaforico: Barbie “mette i piedi per terra” in tutti i sensi: l’unico modo per sconfiggere il suo inedito spleen è andare nel mondo reale e trovare la bambina che, giocando con lei, tira i fili della sua vita. Ken però decide di seguire Barbie, e il loro viaggio nel mondo umano – cioè in California – avrà conseguenze molto diverse per i due. 

 

Le loro strade infatti si separano: Barbie scopre che il suo malessere risale non ai giochi di una bambina, ma ai sogni infranti di una madre single. Grazie all’incontro con la sua creatrice alla Mattel acquisterà coscienza del girl power, mentre Ken sarà attratto dalla mascolinità tossica, a base di poster con cavalli al galoppo e frigoriferi pieni di birra. E quando Barbie torna al suo mondo lo trova rimodellato al maschile, non più Barbieland ma Kenland (“Kendom-land”, specifica lui, laddove la parola suona come “Kingdom”, regno). A Barbie non resterà che mettere a frutto la sua lezione di vita nel mondo reale per guidare tutte le Barbie alla riscossa contro lo strapotere maschile. Colorato, eccessivo, citazionista, a tratti demenziale, il film tenta l’ardua impresa di celebrare il successo di un brand sotto la lente di uno sguardo autoriale. E in effetti la sceneggiatura riesce a infilare più di una arguta considerazione sul conflitto tra le due metà del cielo, senza rinunciare a un ritmo vivace, retto alla grande da interpreti perfettamente affiatati. Impagabili i duetti Robbie-Gosling, ben controbilanciati da quelli tra America Ferrera e la giovanissima Ariana Greenblatt, così da evitare che il registro demenziale (dominante in tutta la parte di Will Ferrell) faccia deragliare il film. Tutto perfetto, meraviglioso e luccicante come Barbieland, allora? 

 


Non proprio: perché nel secondo atto la logica fiabesca del racconto a volte si inceppa in passaggi farraginosi, e la voglia di femminismo militante straripa a danno delle figure maschili: per quanto alcune battute sul patriarcato risultino centrate, le forze in campo risultano in effetti assai sbilanciate a favore del mondo femminile; a maggior ragione quando si nota che le varie Barbie-scrittrice, Barbie-premio Nobel, Barbie-campionessa di atletica non hanno un equivalente maschile tra i vari Ken, tutti livellati sul modello “tipo da spiaggia”, e nemmeno particolarmente virile, tanto da fare sembrare il loro esercito un fan club dei Village People. Se qualche Ken fosse risultato somigliante a Brad Pitt, Hugh Jackman o Chris Hemworth, il cedimento delle Barbie al loro fascino sarebbe risultato più credibile, e l’esito finale della battaglia dei sessi meno scontato. Sul piano dei contenuti, Barbie finisce così per risultare un po’ penalizzato dal proprio azzardo proprio nel finale, sbandando allegramente tra divertimento puro e statement femminista senza tenere sempre la barra dritta. Ma le considerazioni sociologiche vengono in seconda battuta: sorretto da interpreti in stato di grazia, ingegnose trovate visive e un ritmo vivace, il film di Greta Gerwig (co-scritto col marito Noah Baumbach) sfoggia una vitalità contagiosa. E si esce dalla sala – perché sì, è un film da vedere su grande schermo - col sorriso. 


 

lunedì 15 maggio 2023

IL SECONDO ALBO E' SEMPRE IL PIU' DIFFICILE?

Come ho già ricordato qui, dopo avere collaborato a due storie di Martin Mystère, Serra, Vigna e io presentammo alla casa editrice altri due soggetti. Erano, ancora una volta, idee per Martin Mystère. Una di queste diventò La donna immortale (Martin Mystère n.79), il nostro primo albo come soggettisti e sceneggiatori, il debutto ufficiale da professionisti del fumetto. A disegnarlo fu un altro absolute beginner: Dante Bastianoni, in seguito nostro collaboratore su Nathan Never

La seconda proposta, invece, ebbe un esito curioso: fu ritenuta da Tiziano Sclavi più in linea con il neonato Dylan Dog, all’epoca uscito da pochi mesi. Dunque, fummo incaricati di scrivere la sceneggiatura sostituendo Martin con Dylan. Per farci familiarizzare col suo personaggio, Tiziano Sclavi ci spedì in anteprima l’albo Gli uccisori, fresco di stampa e non ancora in edicola, e due delle sue sceneggiature in fase di disegno: Attraverso lo specchio (poi pubblicata su Dylan Dog n. 10) e Golem (Dylan Dog n. 12, col titolo Killer!).

Quella nostra prima sceneggiatura di Dylan Dog che, dattiloscritta nel lontano 1987, diventò poi l'albo n. 29 di Dylan Dog, è ancora in mio possesso, dentro la sua brava cartellina. Il titolo di lavorazione era Fuga dall'incubo. Come potete vedere qua sopra, uscì poi col titolo Quando la città dorme.

 

Non ho alcun ricordo del lavoro fatto per La donna immortale, segno che probabilmente tutto filò liscio. D’altronde, leggevamo Martin Mystère da anni. Sapevamo come muovere il personaggio e come farlo parlare. Con Dylan Dog, personaggio nuovo di zecca, in edicola da appena quattro mesi, le cose furono un po’ più complicate, evidentemente.

Dico “evidentemente” perché in realtà non ricordo nulla di preciso nemmeno della realizzazione di Quando la città dorme. L’evidenza che sia stata laboriosa è data dalle condizioni del dattiloscritto. Alcuni fogli sono indubbiamente quelli originali. Altri sono fotocopie, e su alcune di queste sono presenti paragrafi con caratteri più piccoli, segno dell’intervento di una macchina da scrivere elettrica (probabilmente quella di Tiziano Sclavi). Di diverse tavole c’è una doppia versione, frutto di ripensamenti prima dell’invio alla casa editrice. La numerazione risulta cancellata col bianchetto e poi riscritta a mano. Ci sono poi numerosi fogli di appunti scritti a mano da Bepi Vigna e Antonio Serra. E infine, una chicca: un vero e proprio storyboard disegnato da Antonio Serra. Suo è anche il disegnino esplicativo presente sulla tavola 21, mentre quello a tav. 29 è mio. Come si vede, fu realizzato su un foglio a quadretti, e poi ritagliato e appiccicato sulla sceneggiatura. 





Non ho ritrovato l'albo in questione sugli scaffali, quindi ringrazio l'amico Massimiliano Scalas, che mi ha segnalato la corrispondenza tra tavole di sceneggiatura e pagine stampate. La tavola 21 del dattiloscritto corrisponde alla pagina 25 dell'albo, mentre la sequenza da tavola 28 a tavola 30 corrisponde alle pagine 32, 33 e 34 dell'albo. Diverso il caso dello story-board, che non trova corrispettivi esatti nell'albo: probabilmente era una prima visualizzazione da parte di Antonio, e poi è stato riarrangiato collettivamente in fase di scrittura.

Ultima, doverosa considerazione: per quanto all’epoca tutto questo lavoro possa essere stato impegnativo, col senno di poi posso dire che si trattò di semplice routine. In seguito avremmo affrontato ben altri problemi: riscritture massicce, a volte quasi totali, e non necessariamente per correggere errori, ma per adattare le storie alla continuity o per l’impossibilità di modificare i disegni in corsa. 

Quindi, la risposta alla domanda è no. Non è vero, il secondo albo non è sempre il più difficile. Il più difficile è sempre quello che verrà dopo, e che magari non hai nemmeno iniziato a scrivere.

sabato 13 maggio 2023

LA PIGRIZIA DI ALFREDO CASTELLI

Il contributo di Alfredo Castelli (per amici e lettori il BVZA, il Buon Vecchio Zio Alfredo) al fumetto italiano è semplicemente enorme, ed è impossibile riassumerlo in poche righe. Classe 1947, attivo a partire dagli anni Sessanta, Castelli ha creato decine di personaggi scrivendo storie di tutti i generi: avventurose, umoristiche, fantastiche, realistiche, horror e perfino alcune storie western. Dal 1982 si è dedicato prevalentemente al suo Martin Mystère, la cui serie ha festeggiato l’anno scorso il quarantennale. Eppure, a dispetto della sua prolificità di autore, Alfredo ha sempre detto di essere pigro. Non pensate a una forma di civetteria tipica delle persone creative. Posso assicurarvi che il Buon Vecchio Zio Alfredo non mente. Egli è realmente pigro. E ho le prove per dimostrarvelo. 
 
Come ormai sanno anche i sassi – quello del fumetto è un mondo piccolo, dopotutto – il trio Medda, Serra e Vigna mosse i suoi primi passi nella professione grazie a Castelli. Fu proprio il BVZA a fare sì che per noi si aprissero le porte della Sergio Bonelli Editore (allora Editoriale Daim Press), nell’anno di grazia 1986. Pochi sanno però come andarono realmente le cose.

Per una serie di fortunate circostanze conoscemmo Alfredo insieme a Silver nel 1982, quando i due dirigevano in tandem la rivista Eureka! per l’Editoriale Corno. Li incontrammo di persona proprio nella nostra città, Cagliari, dove erano arrivati per un’ospitata nella trasmissione Cartoni Magici, realizzata negli studi Rai del capoluogo sardo. L’occasione diede luogo a una piacevole chiacchierata e poi a una cena. Nei mesi successivi tenemmo i contatti con Alfredo, e con grande sfacciataggine gli proponemmo due idee per Martin Mystère, che aveva appena debuttato in edicola. Inaspettatamente, le ritenne valide e le usò. Opportunamente adattati dal BVZA, quei soggetti diventarono due avventure del BVZM (Buon Vecchio Zio Marty): Il mistero del nuraghe e Il piccolo popolo. Per quest’ultima storia il soggetto ci venne regolarmente accreditato, e Alfredo ce lo pagò. Galvanizzati, gli mandammo altri due soggetti, per un totale di una decina di pagine. E attendemmo il responso.


 
Alfredo si prese il suo tempo. Passarono settimane. Passarono mesi. Alla fine, non potendo più reggere la suspense, gli telefonammo a casa. “Scusa se ti disturbiamo, ma hai letto quel materiale che...”

Sì, certo, ci rispose, lo aveva letto. E non solo: i soggetti erano interessanti, e soprattutto scritti molto bene. Il che significava che, a suo parere, potevamo tranquillamente muoverci in autonomia e proporli direttamente alla casa editrice, nella persona del direttore Decio Canzio.


Non credevamo alle nostre orecchie. Poco più che ventenni,  nel nostro curriculum non avevamo niente, se non grande passione e grandi speranze. Un conto era una collaborazione amichevole con uno sceneggiatore professionista, una cosa inter nos, insomma; altro conto era proporci come autori a un editore come Sergio Bonelli. Per quanto ingenui, ci rendevamo conto che eravamo nelle condizioni di chi guida uno scooter e si propone alla NASA per pilotare una navicella spaziale. 

 

Ma avevamo dalla nostra l'incoscienza di quell’età. Ci buttammo. Mandammo i due soggetti al famoso indirizzo, via Buonarroti 38, 20145 Milano, indirizzandoli al direttore, Decio Canzio. Ovviamente, nella lettera d’accompagnamento specificammo che Alfredo Castelli aveva letto il materiale e lo aveva ritenuto degno di attenzione, e che per questo ci permettevamo di sottoporlo ufficialmente alla casa editrice.

Gli dei – nelle sembianze di Decio Canzio e Tiziano Sclavi - sorrisero, quei soggetti divennero La donna immortale (Martin Mystère n. 79) e Quando la città dorme (Dylan Dog n. 29), e il resto è storia nota.

 


Pochi anni dopo, agli albori del decennio dei Novanta, Nathan Never era in edicola. E toccava a noialtri, ormai giocatori nel massimo campionato, visionare soggetti di giovanotti pieni di passione e grandi speranze. Confesso che la cosa mi dava una certa angoscia, specie quando dovevo esprimere responsi particolarmente negativi: cercavo di motivare al duecento per cento il mio giudizio, e non potevo fare a meno di chiedermi se stavo facendo la cosa giusta, oppure stavo stroncando sul nascere un potenziale talento.  

 

Durante uno dei miei frequenti viaggi a Milano, in redazione, presi da parte Alfredo e gli dissi di rispondere sinceramente a una domanda. Che cosa lo aveva convinto, anni prima, che tre pivellini potevano affrontare la pubblicazione professionale per Sergio Bonelli? Che cosa lo aveva spinto a scommettere su di noi in base a quelle dieci paginette? “Insomma – gli chiesi - che cosa c’era nei nostri soggetti?”

Alfredo si accese una sigaretta, soffiò una nuvola di fumo e poi mi diede, come volevo, una risposta sincera: “Mah, non lo so. Ti confesso che non li ho mai letti.”.

Rimasi di stucco. Solo allora capii che, non avendo né il tempo né la voglia di leggere, Alfredo aveva semplicemente girato la patata bollente a Decio Canzio.

 

Ecco, adesso lo sapete anche voi: la nascita di tre autori di fumetti non si deve a una misteriosa e irripetibile congiunzione degli astri, ma alla pigrizia congenita - tutt’altro che millantata - di Alfredo Castelli.

 

 

mercoledì 18 gennaio 2023

IN UN MONDO PERFETTO

In un mondo perfetto, le sceneggiature dei fumetti verrebbero scritte, disegnate, completate col lettering e poi pubblicate a una data stabilita. Ma questo non è un mondo perfetto.

La realizzazione della storia di Nathan Never ora in edicola cominciò nel 2008, col titolo di lavorazione Alla fine del giorno. Questo albo avrebbe dovuto essere il primo del ciclo Intrigo Internazionale, poi pubblicato nel 2019. All'epoca, la nostra idea era di cominciare questa sequenza di storie in medias res: improvvisamente scopriamo che Nathan Never ha lasciato l'agenzia Alfa ed è diventato un private eye con tanto di cappello e impermeabile bogartiano. Perché? Che cosa è successo? I lettori lo avrebbero scoperto negli albi successivi. Ma questo non avvenne.

La sceneggiatura di Alla fine del giorno fu affidata alle matite di Roberto De Angelis, che dovette però interrompere il lavoro per disegnare il primo albo di Caravan, la mia miniserie uscita nel 2009. Poi, appena terminato Caravan, Roberto dovette dedicarsi completamente e improrogabilmente a Tex. E così la lavorazione del ciclo di storie con Nathan “occhio privato” si arenò prima di cominciare. Trattandosi di una serie di storie collegate fra loro, non era possibile scriverle se il primo episodio non era pronto. Vista la situazione, non continuai la sceneggiatura, di cui avevo scritto meno di una trentina di tavole. Quelle già disegnate finirono in un cassetto e tutti noi ce ne dimenticammo. Almeno fino a quando non realizzammo effettivamente il ciclo Intrigo Internazionale, partendo da un'idea diversa e con tutt'altro sviluppo.

A quel punto il problema era: che cosa fare col materiale già realizzato per Alla fine del giorno? Non era possibile proseguire la scrittura secondo il soggetto originale, essenzialmente per un motivo pratico: di quel soggetto, a dieci anni di distanza, avevo solo un vaghissimo ricordo. E c'era un altro problema: la storia sarebbe stata in contraddizione con la situazione presente di Nathan Never, che sì, aveva lasciato l'Agenzia Alfa, ma poi vi era rientrato per diventarne il direttore. Come uscire da questa impasse? Con un bel poʼ di lavoro.

Il testo di quella trentina scarsa di tavole è stato radicalmente riscritto, e il resto della storia è stato scritto ex novo, in base a un'idea che, per quanto vago sia il mio ricordo, non era presente nella versione del 2008. E che non mette in contraddizione l'albo con la continuity attuale. Non è stato un lavoro facile, ma neanche così difficile come mi sembrava in un primo momento.

Più difficile è stato trovare un disegnatore che proseguisse l'albo in continuità grafica con lo stile di De Angelis. Alla fine la nostra scelta è caduta su Simona Denna, e si è rivelata azzeccata. Simona ha fatto uno splendido lavoro, adeguando il proprio segno a quello di De Angelis, senza riprodurlo in maniera smaccata.

Così, a dieci anni di distanza dall'inizio della sua lavorazione, Alla fine del giorno arriva in edicola molto diversa da come era stata pensata, a cominciare dal titolo, che non cita più la canzone Private Investigations dei Dire Straits. La storia avrebbe dovuto concludersi con una carrellata dall'interno dell'ufficio di Nathan all'esterno, con le vignette scandite dai versi della canzone. 

And what have you got at the end of the day

what have you got to take away
a bottle of whisky and a new set of lies
blinds on the window and a pain behind the eyes.
 
L'idea per la tavola finale la ricordo benissimo, a differenza di tutto ciò che la precedeva: l'ultima sequenza di vignette avrebbe mostrato Nathan dietro la finestra, in una silhouette schermata progressivamente dai listelli delle veneziane che si chiudevano (“blinds on the window...”), fino a sparire ai nostri occhi. L'ultima vignetta, con la didascalia “...and a pain behind the eyes” sarebbe stata completamente nera.

Ma questo non è un mondo perfetto in cui ogni nostro desiderio si realizza. Il finale della storia ora è diverso. In ogni modo, spero che ne siate soddisfatti come lo sono io. 

 
 
Le prime tre tavole della sceneggiatura del 2008