Giacomo (nome di fantasia) era (ed è ancora) un disegnatore tanto bravo quanto lento. Quando un disegnatore faceva mediamente una ventina di tavole al mese, lui ne faceva quattro o cinque. Tavole ricchissime e zeppe di dettagli, molto belle a vedersi... ma affidare una storia a Giacomo significava aspettare l’arrivo dell’esercito nemico alla fortezza Bastiani. Nell’attesa si consumava una vita.
Al curatore, che lo sollecitava ad accelerare, Giacomo rispondeva: “Il problema è che ho un segno ricco”. “Certo, perché fai migliaia di righine e di trattini sottilissimi, che oltretutto non vengono fuori in stampa.” “Ma quello è il mio stile”. È il mio stile è la magica formula che secondo i disegnatori vanifica qualsiasi obiezione. “Scusa, non vedi che qui il personaggio ha la testa troppo piccola?” “È il mio stile”. “Hai messo una secchiata di neri in questa vignetta, non si capisce che cosa succede!” “È il mio stile”. “È il mio stile” significa in sostanza: “Non so proprio di che cosa stai parlando, non riesco a focalizzare il problema e dunque non ho la minima idea di come risolverlo. E come non puoi vuotare l’oceano né invertire la legge di gravità e far cadere una mela al di sopra dell’albero, non puoi cambiare il mio modo di disegnare.”
A questo punto puoi solo allargare le braccia e sperare che a smuovere il disegnatore provveda l’Onnipotente: magari facendo in modo che la moglie gli regali due gemelli, o che gli vada a fuoco la casa e che l’assicurazione non paghi, lasciandolo al verde e in disperato bisogno di liquidità. Mentre aspettavi questo miracolo, però, la sola cosa da fare era tenere la storia di Giacomo fuori dalla programmazione e mettere accanto al titolo di lavorazione un asterisco che significava “uscirà quando sarà pronta”.
E poi successe: venne il giorno fatale in cui a Giacomo fu affidato un albo che, per motivi di programmazione, doveva assolutamente uscire entro una certa data. La storia fu inserita in scaletta e le fu assegnata una data d’uscita. Questa volta Giacomo avrebbe dovuto marciare di buon passo e rispettare la consegna. “Non preoccupatevi - disse Giacomo - Ho trovato un nuovo stile che mi consente di andare veloce”. Era vero... a metà: Giacomo ora aveva un segno che, se non proprio sintetico, risultava indubbiamente meno “carico”.
Il problema era l’altra metà dell’affermazione. Dopo uno sprint alla partenza, Giacomo rallentò la produzione fino a tornare ai soliti ritmi. All’avvicinarsi della data di consegna fu chiaro che non avrebbe ultimato la storia in tempo utile. A questo punto il curatore ricorse alla minaccia più terribile: “Se non consegni entro la scadenza, sarà un altro disegnatore a finire il tuo albo”. In un’ideale scala di calamità per un disegnatore, vedere il proprio albo terminato da altri equivale ad accorgersi che suo figlio assomiglia un po’ troppo all’idraulico. Cioè, è un’onta inaccettabile. Ogni disegnatore, anche l’imbrattafogli più incapace, è convinto di essere un novello Michelangelo. Puoi far completare il suo albo da Magnus redivivo, ma lui non ammetterà mai che la mano altrui sia migliore della sua. Dunque, era ipotizzabile che di fronte a questa minaccia Giacomo consegnasse in tempo. Non ci riuscì. Il suo lavoro fu portato a termine da un altro disegnatore, che imitò perfettamente il suo stile. E nessuno dei lettori si accorse del cambio di mano (a essere sinceri, nemmeno io).
Sono passati molti anni da allora. Giacomo ha cambiato stile ancora una volta, sempre alla ricerca di quel segno magico che gli consentirà di disegnare almeno quindici o venti tavole al mese. Le sue tavole sono ottime. La sua velocità no. Il problema di molti disegnatori è proprio concentrarsi sul disegno, pensandolo solo in termini “esecutivi”, di abilità manuale. “Saper disegnare” significa fare un disegno “ricco”, iperdettagliato. E dunque, se devo essere veloce, basterà “alleggerire” il segno, giusto? No. Sbagliato. La velocità di esecuzione ha poco o niente a che fare con la quantità di china (o di bite) che finisce sul foglio.
Perché la velocità non è solo quella della mano. È anche quella del pensiero. Ci sono disegnatori che leggendo la sceneggiatura capiscono all’istante come impostare le vignette. Sanno già che cosa dovranno disegnare, non hanno bisogno di rimuginarci sopra. Questo è un meccanismo inconscio, che scatta nella mente di chi ha letto tonnellate di fumetti e visto centinaia di film. Ma è anche qualcosa che si impara col tempo, è una dote che si può affinare. Perché la pratica conta. Se disegni una cosa dieci volte, alla decima volta la disegnerai più in fretta della prima. Perché sai come si fa, sai come ottimizzare i tempi. Ma neanche questo ti aiuterà a essere più veloce se non riesci a uscire dalla mentalità dilettantesca del “più segni metto, più è bello il disegno”, se non riesci a capire che nel fumetto il disegno non è tutto.
Per finire, ecco due esempi di disegnatori agli antipodi nel segno, ma ugualmente veloci.
Una tavola di Roberto De Angelis, dalla storia Infiniti universi (Nathan Never n. 120). Col suo stile plastico e tutt’altro che sintetico, De Angelis riusciva a realizzare anche venti tavole al mese. Un giorno si recò in redazione per la solita consegna. Per motivi di continuità della serie gli furono richieste corpose modifiche in diverse tavole, e gli fu chiesto di quanti giorni avesse bisogno per il lavoro. “Ma no, lo faccio ora”, disse lui. Si sedette a un tavolo e realizzò tutte le modifiche in mattinata, sotto gli occhi increduli dei presenti.
Una tavola di Stefano Casini dalla storia I combattenti dell’isola (Nathan Never n. 352). Noterete che in questa tavola non ci sono sfondi. Il segno è essenziale e i tratteggi sono minimi. La profondità di campo è data dal taglio dinamico delle inquadrature e dall’uso sapiente dei neri compatti. L’economia nel segno non si risolve in una tavola “povera”. Oltre a un grande controllo sul tratto, tavole come questa rivelano una estrema lucidità nell’approccio. Il disegnatore ha fin dal primo momento un’idea chiara di che cosa disegnare e che cosa tralasciare.