In mezzo al materiale tolto dal mio vecchio sito c'era una manciata di racconti, scritti in occasioni diverse e molto distanziate nel tempo. Pochi lo sanno, ma il primo lavoro
pubblicato con la mia firma, nel lontano 1985, non era la sceneggiatura di un fumetto.
Era un racconto, che uscì sull'edizione italiana della rivista Creepy. La prima sceneggiatura da me firmata (insieme a Serra e Vigna) per una storia a fumetti uscì solo tre anni dopo, nel 1988. Era La donna immortale, albo n. 79 della serie Martin Mystère. Nel 1991 sarebbe arrivato Nathan Never. E il resto, come si dice, è storia nota.
In
coda per salire sul Red Rocket, Bebe osserva i vagoncini a forma di
razzo sfrecciare sulla rotaia che sovrasta un’ampia area del
luna-park. Li segue con lo sguardo finché non escono dal suo campo
visivo e poi ne sente solo il rumore mentre salgono, si avvitano e
ricadono, e i ragazzi aggrappati ai sedili gridano in un misto di
eccitazione e spavento. Bebe conta le teste davanti a lui nella fila,
cerca di calcolare quanto ci vorrà prima che arrivi il suo turno. E’
sabato e c’è molta gente. Sarebbe dovuto venire a metà settimana,
magari di mercoledì, c’è meno gente nei giorni feriali. Ma
durante la settimana Bebe non ha avuto molta fortuna. La fortuna
sembrava essere arrivata solo di venerdì, appena il giorno prima.
La
corriera fermò alle otto in punto in piazza Stazione, e Bebe scese
fischiettando. Con il giubbotto sportivo, i jeans e le scarpe da
jogging di marca sembrava un ragazzino come tanti. Razvan lo
raccomandava sempre: “Non vestitevi come straccioni, altrimenti i
poliziotti vi puntano subito”. In segno di sfida Bebe passò
davanti a due poliziotti fermi davanti all’edicola. Stavano
chiacchierando con l’edicolante. Bebe non capiva ancora bene
l’italiano, ma sentì “rigore”, “pareggio”,
“campionato”, e intuì che parlavano di calcio. Non lo
degnarono di un’occhiata.
“Dovete
camminare veloci, fate sembrare che sapete dove state andando”,
diceva Razvan. Bebe affrettò il passo ed entrò nella stazione. I
momenti migliori erano alla partenza e all’arrivo di un treno.
Perché, spiegava Razvan, quando uno sale sul treno sta pensando solo
a salire. Quando uno scende dal treno pensa solo che finalmente è
arrivato, dato che questi stupidi treni italiani arrivano sempre in
ritardo. Il che significa che tu puoi avvicinarti da dietro al pollo,
poi allunghi una mano, tiri piano piano la cerniera dello zaino, e
senza che quello se ne accorga gli sfili il cellulare. O la macchina
fotografica. O il portafogli (c’è sempre qualche pollo che mette
il portafogli nello zaino, e uno così, nella classifica della
pollitudine, è secondo solo al pollo che lo tiene nella tasca
posteriore dei jeans).
Bebe
cominciò a guardarsi attorno, studiando il viavai dei viaggiatori.
Si sentiva calmo e sicuro di sé. Sorrise ripensando ai suoi primi
giorni alla stazione, e al batticuore che lo assaliva ogni volta.
Nelle
prime settimane Razvan lo aveva messo a lavorare con Daniel e
Catalin, due cugini che avevano quattordici anni, tre più di lui.
Catalin, che parlava un po’ di italiano, fermava il pollo e gli
chiedeva indicazioni su come raggiungere un posto, quale autobus
prendere, cose così. Daniel allora passava alle spalle del pollo e
gli lavorava il trolley, e Bebe faceva da palo. In seguito Bebe e
Daniel si erano scambiati il ruolo, come due calciatori che si
alternano sulla fascia laterale. Catalin,
che era l’anziano del gruppo (tre mesi più di Daniel), si vantava
di avere un occhio infallibile per i polli. Ma una volta una
vecchietta che dimostrava almeno ottant’anni si era accorta che
Bebe le stava ravanando nel trolley, e li aveva menati con
l’ombrello, con una furia tale che per poco Catalin non ci
rimetteva uno dei suoi occhi infallibili. Un’altra volta il palo
Daniel, distratto dalla minigonna di una mora, non si era accorto di
avere alle spalle due carabinieri. I quali invece non erano distratti
affatto, e avevano costretto il trio a una fuga precipitosa.
Dopo
un mese, Bebe si era stufato dell’andazzo ed era andato a parlare
con Razvan. Daniel e Catalin non fanno mezzo cervello in due, gli
aveva detto, e io voglio lavorare da solo. Razvan organizzava i
ragazzini in squadre di due o tre elementi. Catalin, Daniel e Bebe
gli portavano alla fine della giornata merce per un valore che andava
dai trecento ai settecento euro. Ma se tu mi lasci fare da solo,
disse Bebe, vedrai che di quei soldi te ne porto il doppio. Razvan
gli aveva detto di sì.
Una
volta a Bebe era andata male. Aveva scelto il pollo sbagliato, che
si era rivelato un campione di atletica leggera. Aveva inseguito Bebe
che scappava con il suo cellulare in mano, lo aveva raggiunto
all’estremità di piazza Stazione, lo aveva bloccato e aveva
chiamato la polizia. E prima che gli sbirri arrivassero si era tolto
la soddisfazione di stampargli in faccia due ceffoni.
“Alla
polizia non dovete dire niente - era l’ordine di Razvan - Né come
vi chiamate né dove state, capito?” Per Bebe non era difficile.
Tutto il suo italiano non arrivava a venti parole. Così, davanti al
poliziotto che lo interrogava, fece il duro.
“Allora?
Come ti chiami? IL - TUO - NO - ME!” sillabò il poliziotto.
“Sigaretta.”
Rispose lui, portando due dita alla bocca. Aveva visto alla tv che
quando i poliziotti ti interrogano puoi chiedere una sigaretta.
”Te
la do io la sigaretta... ma tu guarda… ”
Bebe
scrollò le spalle, cercando di ostentare una sicurezza che non
provava. A sera arrivò Mircea. Mircea dichiarò ai poliziotti di
essere lo zio di Bebe. Firmò delle carte e se lo portò via.
“Non
ho detto niente” disse Bebe mentre salivano sul furgone.
Neanche
Mircea disse niente. Bebe non riuscì a indovinare la piega della sua
bocca sotto i baffoni grigi.
Al
campo, Mircea lo aveva portato davanti a un grosso palo.
“Abbraccialo”, gli aveva detto. Bebe non capiva. Mircea gli aveva
dato un ceffone così forte che a momenti gli staccava la testa dal
collo. Bebe aveva abbracciato il palo, e Mircea gli aveva bloccato i
polsi con tre giri di nastro telato. Soltanto allora Bebe aveva
capito. Mircea si era tolto la cinghia dai pantaloni e aveva detto
soltanto: - Se gridi te le do più forte, hai capito? -
- Non
è colpa mia se mi hanno preso -, supplicò Bebe.
- È
colpa tua se Razvan ha perso una giornata di incassi.
Bebe
non gridò sotto le cinghiate. Mugolò e si pisciò addosso come un
cucciolo spaventato.
Rimase
legato al palo tutta la notte. Bloccato com’era non poteva nemmeno
stendersi, ma solo stare seduto. Il mattino dopo era semiassiderato e
la schiena scorticata gli bruciava come se gliel’avessero sfregata
contro una graticola. Il dolore lancinante gli provocava ondate di
nausea. Mircea gli liberò le mani e disse: “Adesso vatti a
lavare.” Bebe
si accasciò. Non aveva la forza di fare un passo.
Qualcuno
lo portò nella baracca che divideva con altri quattro ragazzi.
Nessuno dei quattro era ancora rientrato. Disteso su un fianco sul
materasso nudo, scosso dai brividi della febbre, Bebe sentiva che
stava per morire, e non voleva morire solo come un cane. Ricordò le
preghiere che gli aveva insegnato sua nonna. Pregò Gesù, San
Giuseppe, la Vergine Maria e poi pregò l’angelo custode. E quando
l’angelo arrivò e si chinò su di lui sfiorandogli il volto con
una cascata di boccoli biondi, Bebe si spaventò e pensò che la sua
ora fosse arrivata.
- Non
voglio m-morire. - balbettò.
- Non
morirai. - disse l’angelo, posando a terra una bacinella di
plastica piena d’acqua.
- Ti
hanno mandato a portarmi via? - disse Bebe, che non aveva mai visto
un angelo che portava una bacinella. E tutto a un tratto gli sembrò
improbabile che un angelo vestisse una felpa gialla con un disegno di
Paperino.
- Mi
hanno mandato a medicarti. - disse l’angelo estraendo un
fazzolettino dai jeans, e poi aggiunse: - Mi chiamo Mirela.
La
ragazzina bionda in coda davanti a Bebe si volta di scatto, come se
avesse percepito gli occhi di lui sulla sua nuca. Bebe capisce che la
stava fissando senza rendersene conto, e distoglie subito lo sguardo,
riportandolo sul Red Rocket che ripassa sopra le loro teste col suo
carico di viaggiatori eccitati. La ragazzina si volta di nuovo,
tranquillizzata, e muove qualche passo avanti insieme ai suoi
genitori: la coda si sta accorciando.
Mirela
gli pulì le ferite sulla schiena, gliele cosparse con una polvere
cicatrizzante, lo aiutò a indossare una felpa pulita e si voltò
pudicamente dall’altra parte mentre lui si cambiava mutande e
pantaloni. Poi gli portò una tazza di brodo, un’aspirina e una
scatola di biscotti, e rimase seduta accanto a lui a guardarlo
mangiare. A quel punto Bebe aveva già deciso che era la bambina più
bella che lui avesse mai visto. Quella notte, quando spensero la luce
nella baracca, non riuscì a smettere di pensare a lei, quasi si
dimenticò della sua schiena in fiamme, e concluse di essere
perdutamente innamorato.
Da
quel giorno aveva cercato di vedere Mirela il più possibile. Non era
facile. Mirela era arrivata da Craiova con con una zia e una cugina
(come quasi tutti, del resto; erano appena quattro o cinque i
ragazzini che vivevano al campo con i genitori). Mirela
andava a mendicare con sua cugina - che era incinta - nella parte sud
della città. Queste
cose Bebe le aveva sapute semplicemente chiedendo in giro. Che
invece Mirela andava matta per il cioccolato lo aveva scoperto da sé,
quando le aveva regalato una scatola di gianduiotti (regolarmente
acquistata in un bar e orgogliosamente infiocchettata nella
confezione regalo, grazie a una cameriera volenterosa che aveva
decifrato i suoi gesti) per il suo compleanno. Quel giorno Mirela
compiva dodici anni, un anno più di Bebe.
Vedersi
durante il giorno, in città, era praticamente impossibile. E la
sera, al campo, era difficile. La cugina di Mirela non muoveva un
dito, col pretesto che non poteva affaticarsi per via del bimbo in
arrivo. Mirela cucinava per sua cugina e sua zia, lavava e cercava
di tenere in ordine, nei limiti del possibile, la baracca. Riuscivano
a vedersi al momento della cena. Preparata la tavola, Mirela usciva
per mangiare per conto suo, e Bebe la raggiungeva. Qualche
volta, quando i grandi li facevano entrare nella baracca grande,
guardavano la tv. Bebe adorava I Soprano, che Stefan
doppiava in rumeno con effetti esilaranti. A Mirela - che masticava
un po’ d’italiano - piaceva Buffy l’Ammazzavampiri.
Una
sera videro un film – era già cominciato e non sapevano il titolo, ma
c’era una nave che affondava - e c’erano un ragazzo e una
ragazza, e alla fine lui si lasciava annegare per salvare lei, e a
quella scena Mirela prese la mano di Bebe e la strinse forte.
Quella
sera Bebe la riaccompagnò alla sua baracca senza lasciarle la mano e
le chiese se voleva baciarlo. Lei ci pensò su, serissima. Alla fine
disse: - Sì.
-
Evviva - pensò Bebe.
-
Senza lingua, però. - disse Mirela.
Si
baciarono.
Bebe
quella notte tardò a prendere sonno. Si immaginò che lui e Mirela
si sposavano, e poi lui trovava un lavoro, e otteneva il permesso di
soggiorno, e si comprava una macchina, e avevano una casa e anche un
cane e un gatto. Avevano appena avuto due gemelli quando crollò
addormentato alle cinque del mattino.
E poi
un giorno erano venuti a sapere di Strampaland.
Mirela
aveva trovato un depliant pubblicitario abbandonato su un sedile del
tram. “Entra
nel mondo fatato dell’orsetto Strampy!”, diceva l’opuscolo.
Strampaland era un luna park. - Ma non è il solito luna park.
- spiegò Mirela - E’ un parco così grande che ci vuole una
giornata intera per girarlo tutto.
- Ma
va la’. - disse Bebe.
- Ti
giuro, è così.
A
Strampaland c’erano le giostre. C’era il villaggio
western. C’era La Foresta degli Alberi Sussurranti. E poi c’era
Shrieking Falls, la corsa sull’acqua. Bebe guardò stupito
la foto del vagoncino che correva su un binario a pelo d’acqua,
sollevando tutto intorno grandi pennacchi schiumosi. Bebe - che aveva
terrore dell’acqua da quando suo cugino Minya era annegato nel
fiume Jiu - pensò che non avrebbe mai fatto una cosa del genere per
niente al mondo.
Non
era tutto qui: a Strampaland c’era anche Il covo dei pirati, una
specie di caverna con statue di pirati che sembravano veri, a guardia
di un forziere pieno d’oro con le sciabole sguainate e il pugnale
fra i denti. Beh, questo sembrava già più rassicurante di Shrieking
Falls.
Invece,
sia Bebe che Mirela si pronunciarono severamente sul Trenino di
Strampy, un trenino dai colori accesi, con un paio di buffi occhi
disegnati sulla locomotiva, che sembrava avere il solo scopo di
trasportare marmocchi urlanti e felici.
E poi
c’era il Red Rocket. “Nuova attrazione!!!”, era
scritto a grandi lettere rosso fiamma sull’opuscolo. Bebe intuì
che si trattava di una sorta di ottovolante. Era stato al luna park
due volte, e sapeva che cos’era un ottovolante. Ma dalle foto
questo ottovolante che si stagliava contro il cielo azzurro, ben
oltre i tetti dei padiglioni del parco, sembrava una cosa enorme, e i
vagoncini rossi a forma di razzo apparivano minuscoli. Quanto era
alto l’ottovolante? Trenta metri, almeno. No, di più, forse
cinquanta.
-
Chissà com’è questa cosa - disse Bebe, fingendo una perplessità
che non provava. Più guardava le foto e più gli piacevano quei
razzi rossi, gli piaceva l’idea di sfrecciare tra la terra e le
nuvole a cento chilometri all’ora, di sentire il vento sulla faccia
bruciargli gli occhi e mozzargli il respiro.
- Beh,
sembra divertente. - disse Mirela.
- E
magari lo è. - disse Bebe - Forse. - aggiunse scrollando le spalle. Stava
già formulando un piano.
Il
biglietto d’ingresso a Strampaland costava 25 euro. Per due
biglietti, quindi, ci volevano 50 euro. Una cifra tutt’altro che
proibitiva per Bebe. Gli accordi con Razvan erano semplici. Se il
bottino di Bebe non superava i trecento euro al giorno, Razvan non
gli dava niente. Oltre un valore di trecento euro, Bebe prendeva da
Razvan quaranta euro. Cinquanta se il valore della merce superava i
cinquecento euro. Perciò, l’ingresso a Strampaland costava
una giornata di lavoro di Bebe.
Il
problema era che Strampaland era lontano dalla città. Alla
stazione, Bebe aveva controllato sul tabellone gli orari dei treni.
Per arrivare a Strampaland col diretto ci volevano esattamente
settantacinque minuti. E per tornare ne occorrevano dieci di più,
perché l’ultimo treno utile, alle sei e mezza di sera, era un
interregionale e faceva più fermate. In parole povere, la gita a
Strampaland richiedeva praticamente una giornata intera. E
Bebe dubitava che Razvan gli avrebbe mai concesso un giorno di
vacanza. In tutta la settimana i ragazzi avevano solo mezza giornata
di riposo, la domenica pomeriggio. E comunque alle otto di sera
dovevano essere di nuovo al campo.
Paradossalmente,
Mirela era più libera di Bebe. Il silenzio di sua cugina poteva
essere comprato con un paio di calze nuove e una scatola di marron
glacés. Se avesse voluto, Mirela avrebbe potuto andare dove
voleva, a patto che alle otto facesse puntualmente ritorno insieme a
Ilyana. Bebe
ci aveva pensato su parecchio, e alla fine aveva concluso che forse
Razvan gli avrebbe concesso una giornata libera se lui gliel’avesse
pagata. Magari portandogli in un giorno solo il bottino di due
giorni. Non che questo fosse facile. Da qualche tempo la stazione era
piena di poliziotti, e avevano già pizzicato Catalin e il piccolo
Florin. Ma cambiare zona sarebbe stato pericoloso in caso di fuga.
Bebe conosceva alla perfezione le strade intorno alla stazione, i
semafori, gli spartitraffico, i parcheggi. Cambiare quartiere
significava rischiare di finire sotto un autobus buttandosi giù dal
marciapiede a rotta di collo, o di infilarsi in qualche vicolo cieco
con i poliziotti alle calcagna. O, peggio ancora, di sconfinare nel
territorio di caccia di qualcun altro. E anche se Bebe portava sempre
un coltello - lo aveva vinto giocando a carte - non aveva intenzione
di affrontare albanesi o magrebini in un duello rusticano. Non
c’erano alternative. Gli serviva un colpo grosso. E doveva farlo
alla stazione.
Gli fu
servito su un piatto d’argento, il suo colpo grosso, da un pollo
sui venticinque anni. Il pollo aveva un trolley, uno zainetto sulle
spalle e un computer portatile a tracolla, e stava consultando il
tabellone delle partenze. Vi fece scorrere il dito, poi andò a
consultare lo schermo con l’elenco dei treni in arrivo. Fece una
smorfia di disappunto e si diresse al bar. Prese un caffè e un
cornetto, pagò, e poi andò al chiosco dei giornali. Pescò una
rivista di videogiochi, due fumetti e la Gazzetta dello Sport,
e porse una banconota da 50 euro al giornalaio.
- Non
ho spiccioli - disse il giornalaio - Ha almeno un euro e venti? -
Il
pollo posò a terra il portatile, si sfilò lo zainetto dalle spalle,
ne tolse il portaspiccioli, contò le monete e le diede al
giornalaio. Intascò il resto, rimise il portafogli nella tasca
interna del giaccone, infilò i giornali nella tasca esterna del
trolley, e infine si risistemò lo zainetto sulle spalle. Solo in
quel momento si rese conto, con un tuffo al cuore, che il suo
portatile era sparito.
Bebe
ricorda come si era sentito felice mentre saliva sull’autobus col
computer prudentemente avvolto nel giubbotto. Quando l’autobus era
passato davanti al cartellone con la pubblicità di Strampaland, lui
si era immaginato già sul Red Rocket con Mirela. Il ricordo di
quell’attimo di totale felicità gli procura una sensazione quasi
fisica, come se una mano invisibile gli strizzasse i visceri, e per
poco non si fa sfuggire un singhiozzo. Il Red Rocket ha finito il suo
giro. L’addetto del parco aspetta che la gente esca dall’uscita
laterale, poi sgancia il cordoncino che delimita il corridoio di
accesso. - Avanti, avanti. - Passano cinque, dieci, quindici persone.
Bebe si affretta, ma l’uomo solleva una mano col palmo in fuori e
con l’altra riaggancia il cordoncino proprio davanti a lui. - Al
prossimo giro. - gli dice, sorridendo comprensivo.
Razvan
gli aprì la porta della baracca con aria seccata, senza farlo
entrare. Aveva i capelli arruffati e l’aria di essere appena
cascato per caso dentro i pantaloni.
- Che
cavolo vuoi a quest’ora?
- Ti
devo parlare.
-
Ripassa più tardi.
- E’
importante. - disse Bebe, e tirò fuori il computer da dietro la
schiena.
Razvan
si fece da parte per lasciarlo entrare, si rimise i lembi della
camicia dentro i pantaloni e si tirò su la lampo. Mise
il portatile sul tavolo traballante, lo aprì, lo accese. Quando vide
la schermata di ingresso scoprì i denti marci in un sorriso. - Bel
colpo.
- Sì.
- disse Bebe. Era il momento di chiedere una giornata libera, ma
tutto a un tratto si rese conto di non essersi preparato il discorso.
Non sapeva da che parte cominciare, e Razvan si accorse subito del
suo nervosismo.
- Cosa
c’è?
- Sono
stato bravo, no?
- Sì.
Allora, cosa c’è?
Bebe
esitò ancora. Razvan, le sopracciglia aggrottate, aspettava in
silenzio. E nel silenzio arrivò un gemito da quella che era la
camera da letto di Razvan, separata dal resto della baracca soltanto
da una tenda.
Istintivamente,
Bebe si voltò verso la tenda.
- Mi
senti? - disse Razvan seccato. - Sto parlando con te! -
Bebe
non rispose. Lo spiraglio della tenda lasciava intravedere un angolo
del letto e una sedia. Sulla sedia era posata una felpa gialla con un
disegno di Paperino. Quando
Bebe sentì un altro gemito corse verso la tenda e la tirò di lato.
Mirela
sollevò di scatto la coperta, stringendola sul petto, un gesto
rapido, ma non così rapido da impedire a Bebe di capire che sotto la
coperta era nuda. Guardò Bebe spalancando un occhio, uno solo.
L’altro era gonfio, violaceo, e la palpebra rimase abbassata. Le
labbra erano tumefatte, incrostate di sangue.
Razvan
urlò qualcosa che Bebe non sentì, perché anche Bebe stava urlando
quando si voltò verso Razvan e gli andò addosso impugnando il
coltello.
-
Coraggio, sotto a chi tocca - dice l’addetto sganciando il
cordoncino, e fa cenno a Bebe e agli altri perché vengano avanti.
Il
Red Rocket parte, e lui è a bordo, l’unico posto dove voleva
veramente essere. L’unico posto dove poteva andare. Ci
ha pensato tutta la notte, raggomitolato su una panchina del parco.
Ha ucciso Razvan, e la polizia lo sta cercando. Anche Mircea e gli
altri lo stanno cercando. Non ha nessun posto dove andare. Non ha
nessuno da cui tornare, nemmeno Mirela, forse la rimanderanno in
Romania, chi lo sa. Bebe
guarda giù e vede due divise blu in mezzo alla folla, vicino
all’addetto del parco, e l’uomo solleva la testa e punta il dito
verso l’alto, indicando il Red Rocket.
Il
Red Rocket sta vibrando e adesso scende, risale lungo la rotaia
ingobbita e poi scende di nuovo, anzi, precipita in verticale a
ottanta, novanta, cento chilometri all’ora.
I
ragazzi agitano le braccia e gridano, e Bebe stende anche lui le
mani, schiaffeggia il vento che gli riempie gli occhi di
lacrime, e grida con tutta la voce che ha in gola.